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Avanti senza rancore - dieci domande al M° Dino Contarelli
Samurai Settembre 2019 a cura di Sergio Roedner
Bernardo COntarelli - Ho sempre pensato ai Contarelli come a una dinastia di karateka. Sei stato tu a contagiare i suoi fratelli? Quali sono stati in tutti questi anni i rapporti tra di voi?

- Non parlerei proprio di una dinastia ma di una famiglia tradizionale, quello sì. Io vengo da una famiglia contadina con un grande rispetto per il capofamiglia. Mio nonno si sedeva a capotavola, aveva quaranta persone tra figli e nipoti intorno a lui e lui teneva il bastone in mano. Però erano altri tempi. E’ rimasto il principio della famiglia tradizionale e del rispetto, non solo del capofamiglia che io considero essere mio padre e soprattutto mia madre ma anche di tutti i componenti della famiglia, e soprattutto la solidarietà e l’aiuto verso chi è più debole degli altri.
Per quello che riguarda il karate, è successo che io ho iniziato a fare karate. Essendo il più vecchio, gli altri mi hanno seguito vedendo forse il mio entusiasmo, ma non c’è stato nessun condizionamento e coercizione, soltanto condivisione di valori. Hanno visto i pochi successi che ho avuto in campo agonistico, si è aggregato Eligio che aveva 17 o 18, poi è venuto Livio che ha dovuto smettere per motivi di salute, poi c’era mia sorella, ma a quell’epoca salvo poche eccezioni le donne non facevano karate. Poi è arrivato Emilio che per me è quasi un figlio più che un fratello perché avevo 15 anni quando lui è nato e l’ho tenuto sotto la mia ala fin da bambino. Lui ha iniziato a 6 anni e quindi ha avuto una grande possibilità di apprendimento. Per quel che riguarda i figli e i nipoti io ho sempre detto: “Potete fare tutto quello che volete ma il karate è una materia obbligatoria, non è facoltativa”. Anche qui con una certa elasticità, perché penso che il karate dia una possibilità di maturazione e di concentrazione e anche un senso di responsabilità nella vita e nello studio anche ai ragazzi giovani, soprattutto per il rispetto che insegna, per cui i miei figli hanno seguito me. Hanno provato anche altri sport, come del resto io che vengo dall’ISEF. Ho fatto prima calcio poi ginnastica artistica, ho provato anche basket e rugby ma il karate è sempre stato il mio grande amore, certo per merito dei miei maestri.

In una passata intervista hai dichiarato di aver iniziato la pratica del karate a 16 anni, spinto dalla curiosità. Qualcosa del genere è accaduto anche a me. Ti attraeva l’aspetto della difesa personale? Che immagine avevi del karate all’inizio?
-La curiosità è veramente la molla che mi ha spinto, ma io abitavo in un paese in cui dire di essere nel medioevo era dir poco, per cui le scazzottate tra i giovani erano all’ordine del giorno, ma in un modo quasi amichevole, e io ero uno di quelli che non si tiravano indietro. Anche se ero piccolino picchiavo forte già allora, per cui non è stata quella la molla che mi ha fatto scegliere il karate ma proprio il fatto che era qualcosa che veniva da lontano, di esoterico, di strano. Io ero un ragazzino, avevo fatto le medie e un paio di anni di superiori per cui, merito anche di qualche giornaletto e di qualche fumetto, il karate che batteva tutti era una cosa che mi attraeva, era una curiosità, anche culturale se vogliamo. Non era l’autodifesa.

- Tornando a Desenzano mi sono venuti in mente gli stage interminabili al palazzetto dello Sport, sul cemento. Quando ripenso alla Fesika la associo al grande sforzo di tutti i praticanti, spinti al limite della resistenza psico-fisica.

Che ricordi hai tu della Fesika?
- Ho dei grandi bellissimi ricordi, ricordi di grandi fatiche ma anche di grandi soddisfazioni. Naturalmente non ero in grado di dare giudizi sui tipi di allenamento, sulle metodologie, anche perché ero agli inizi dell’università, per cui stavo ancora entrando nel mondo dello sport dal punto di vista scientifico. E quindi ho dei bellissimi ricordi: grandi battaglie, grandi competizioni e soprattutto vedevamo sempre le stesse facce a fare le cose perché, nonostante la Fesika abbia avuto un gran nome, non è che fossimo moltissimi all’inizio e quindi dovevamo essere sempre noi che giravamo. Per il discorso del cemento non è cambiato nulla perché il palazzetto è rimasto quello, costruito negli anni 60 sull’onda delle Olimpiadi di Roma.
Dagli anni ‘70 e ‘80 sono cambiate anche le mie idee e giudizi di merito su quello che si faceva. Nonostante ciò io ho dei bei ricordi di grandi soddisfazioni, ma nessun tipo di rimpianto. Sono consapevole di un fatto, che io tra quelli che erano nel giro della squadra nazionale forse ero quello che aveva meno chances dal punto di vista agonistico ma ne ero perfettamente consapevole: nonostante ciò speravo sempre di battere i migliori.

Tu hai avuto un ruolo di spicco anche nel decennio dell’unificazione con la Fik e delle vicende successive. Ti ricordo nel 1986 presidente della commissione d’esame per i passaggi di dan. Che opinione e che ricordi conservi del periodo in cui il karate italiano era unificato?
- Io l’unificazione l’ho subita, però ho fatto in modo che riuscisse per rispetto delle persone che l’avevano attuata e quindi nel momento in cui mi trovavo lì ed avevo un ruolo, lavoravo perché avesse successo, non per frenare, come purtroppo ho visto che alcuni hanno fatto. Se fosse stato per me non l’avrei fatta già allora, perchè temevo che ci fossero due visioni diverse, non voglio dire del karate, ma di due modi di praticare, di esprimersi attraverso un determinato movimento. Non ero affatto entusiasta, però ho lavorato con entusiasmo affinché riuscisse il progetto che però, come il tempo ha dimostrato, non è affatto riuscito.

Come me, anche tu hai svolto contemporaneamente il ruolo di maestro di karate e di insegnante di scuola superiore. Hai mai avuto come allievi in palestra dei suoi studenti? C’è stata interferenza tra i ruoli? Sei stato un insegnante autoritario o permissivo?
- Per me è stata una gran cosa. Non ho mai insegnato karate a scuola, io insegnavo educazione fisica, il karate lo insegnavo fuori, e proprio da come insegnavo a scuola molti volevano fare karate con me fuori. Tant’è vero che questi allievi sono diventati papà e adesso mandano da me i bambini e addirittura ho anche un nonno che ha mandato il figlio e adesso manda il nipotino in palestra. C’è stata un’interazione, uno scambio molto importante ritengo, e anche molto costruttivo, quindi assolutamente non c’è stata interferenza in senso negativo ma positivo. La cultura del karate ha influenzato positivamente il mio modo di essere e di insegnare. Questo mi ha fatto apprezzare moltissimo anche dai colleghi, quindi ho avuto una grande soddisfazione in entrambi i campi per merito del karate. Io ero, più che autoritario (posso anche essere definito così perché davo dei grandi calci nel sedere, anche metaforici, al tempo) però preferirei chiamarla severità. Io ero dell’avviso che bisognava lavorare molto, in sede di giudizio finale però ero molto positivo, aiutavo moltissimo gli studenti che avevano dimostrato serietà e impegno, e questo mi è stato riconosciuto agli esami di maturità dai commissari esterni che venivano come presidenti di commissione, persone di livello non solo nell’ambito sportivo, ma culturale e scientifico.

Vorrei invece che mi parlassi del tuo rapporto col maestro Kase. In che occasione l’hai incontrato? Come ha influenzato il tuo karate? Hai un aneddoto da raccontare?
- Onestamente non mi ricordo l’inizio del mio rapporto col maestro Kase, credo che sia stato in uno stage in Italia perchè allora non avevo molte disponibilità per spostarmi all’estero. E’ stato sicuramente merito del maestro Shirai che me l’ha fatto conoscere e apprezzare. Per me il maestro Kase è stato non solo un maestro ma qualcosa di più, direi una figura paterna. Lui è stato quella persona che mi ha detto una volta – e lì mi ha conquistato: “Non importa che io sia orientale, potrei essere inglese, francese, tedesco o italiano, però il karate che noi facciamo è universale, quindi è del mondo, è dell’uomo”. Questo è il primo aneddoto che posso raccontare, poi ne avrei altri ma sono cose troppo personali, intime, preferisco tenerle per me. Naturalmente il maestro Kase è là, sulla parete del mio dojo, ed è nel mio cuore. Al di là della tecnica mi ha insegnato ad essere uomo. Io però ritengo un grave errore fossilizzarsi su una tecnica, ad esempio fudodachi. Naturalmente fudodachi lo faccio perchè è qualcosa che il maestro Kase ha aggiunto al bagaglio del karate, come le tecniche con la mano aperta, i calci Kaiten o altre cose che erano caratteristiche del maestro Kase. Sicuramente, anche involontariamente, ho adottato dei modi di fare suoi o del maestro Shirai: loro due sono quelli che hanno influenzato maggiormente la mia esperienza del karate. Ma sicuramente ho adottato anche qualcosa dei miei amici: posso citare il maestro Carlo Fugazza, il maestro Perlati o anche altri. Come ho già detto io devo solo ringraziare i miei amici della Fikta perché mi hanno dato tanto. Tuttavia io riterrei un errore esprimermi solamente attraverso tecniche apprese da lui, sarebbe un’offesa al suo insegnamento, perché quelle sono fondamenta per costruire un muro. Io devo cercare di arrivare fino al tetto. Non so se riuscirò a farlo però io voglio poter dire: “Questo pezzo di muro servirà a chi verrà dopo di me per costruire un altro pezzo e a qualcun altro ancora per fare il tetto”.

Vorrei che ora provassi a spiegare ai lettori di Samurai e a tutti gli appassionati di karate in Italia le ragioni del tuo distacco dal maestro Shirai e della tua uscita dalla Fikta.
- Non c’è un motivo in particolare, ci sono milioni di motivi. L’arrabbiatura istantanea non è motivo di distacco: la mia insoddisfazione è partita proprio dalla fusione Fik- Fesika, assieme alla domanda: dove andiamo? Cosa facciamo? Con grande rispetto per la Fik, perché io ho conosciuto l’avvocato Ceracchini ed era un personaggio di alto livello, come tutti gli altri presidenti che ho conosciuto, però io ho ritenuto un grave errore fondersi in quel modo. Magari ci poteva essere un altro modo ma io non lo so perchè non abbiamo provato. In consiglio federale io ho detto: “Io voglio stare in una federazione in cui ci sia anche il maestro Shirai, non voglio stare nella federazione del maestro Shirai”. Avevo anche suggerito una strategia anche per il maestro, anche per salvare l’ITKF, però probabilmente non è stata ritenuta valida. Da qui la mia scelta, prima di dimettermi dai miei incarichi (e questo è successo il 21 giugno del 2016). Poi nel 2017 ho dato anche le dimissioni da socio fondatore, queste causate anche da una situazione sgradevole che si era creata, perché probabilmente si pensava che io volessi fare qualcosa contro la Fikta, cosa che non è mai stata nelle mie intenzioni. In quel momento si è chiuso il mio rapporto con la Fikta e anche col maestro Shirai come rapporto allievo-maestro. Con grande rispetto per la persona e con grande riconoscenza per quello che mi ha dato, però io in questo momento non sono più allievo del maestro Shirai, sono una persona che cerca di fare del proprio meglio col bagaglio culturale che ha avuto. Lo sono stato convintamente e in modo assoluto, questo sia chiaro. Non so se sono riuscito a spiegare le motivazioni per una scelta che era matura già da tempo.

Come valuti il momento attuale del karate italiano e internazionale, e in particolare l’avvicinamento tra la Fikta e la Fijlkam?
- La cosa non mi interessa perché ritengo che non sia stata seguita la linea che il maestro Funakoshi voleva dare al karate. Non so se sono troppo presuntuoso, ma in questi due anni in cui mi sono staccato dalla Fikta ho dovuto studiare. Ho preso dei testi, ho letto anche delle interviste che tu hai pubblicato su Yoi e ti ringrazio tanto, ho letto e studiato e alla fine ho scoperto che il maestro Funakoshi non aveva fatto il karate Shotokan, aveva fatto il karate. Questo era il nome che aveva dato alla sua attività. Io accuso la JKA di non essere stata capace di difendere questo grande patrimonio, perchè chi ha dato il nome Shotokan al karate del maestro Funakoshi sono stati coloro che si sono sentiti spiazzati dal fatto che lui avesse fatto il karate. Allora dicono: “Io faccio shito-ryu, che cos’è? E’ lotta anche questa, allora chiamiamolo karate shito-ryu, e quello lo chiamiamo shotokan” per via dello psedonimo Shoto e tutte le belle storielle che si raccontano. Quindi è stato travisato il messaggio del maestro Funakoshi. Nell’ultima sua prefazione all’edizione del 1956 del suo libro Karate-do Kyohan lui era molto preoccupato di questo fatto. Allora io dico: Scusate, noi diciamo che facciamo il karate del maestro Funakoshi che è stato il precursore del karate, lo riconoscono perfino i caposcuola di tutti gli altri stili, ma allora voi cos’avete fatto? Io dico: io faccio karate, non faccio shotokan e quindi rispetto anche quelli che fanno wado-ryu e shito-ryu. Uno mi disse una volta: “Io faccio wado- ryu, quindi dovrei cambiare i kata?” “ Chi se ne frega dei tuoi kata? Tu non devi cambiare niente, anzi per rispetto a te stesso devi continuare a farli, noi possiamo trovare una strada comune che ci porti a migliorare, tu nel wado-ryu e io nel karate”.

Parlami dell’Ikta e della Feiska, e in generale dei tuoi progetti per il futuro. C’era davvero bisogno di un’altra federazione di karate in Italia?
- Io dico che sono in ritardo di dieci anni in questa scelta per fondare una associazione di maestri che si occupasse di studiare, magari fallendo, perchè non sempre chi fa la ricerca raggiunge l’obiettivo che si pone, però condividendo esperienze, mettendosi a lavorare insieme, facendo anche delle proposte. Io non sono quello che dice: “Voglio che facciate quello che dico io”, quindi è nata la International Karate Teachers Academy, perchè io dovevo pur orientarmi da qualche parte, altrimenti rimanevo da solo. In altre federazioni non ci volevo andare, anche se sono stato contattato da persone molto cortesi che me l’ hanno chiesto. Ma io ho detto: non sono uscito dalla Fikta per entrare da qualche altra parte, neppure nella Fijlkam perché non ne condivido l’operato tecnico. Grandi persone, rispettabili, studiose, però anch’io sono studioso, e quindi magari confrontiamoci, ma su un piano di parità. Io sono partito in questo modo, ma non volevo fare l’Ikta. Quando sono uscito dalla federazione ho dato ai gruppi dove facevo gli stage l’indirizzo dell’Istituto Shotokan Italia, ma mi è stato risposto che loro non ne volevano sapere e volevano stare con me. La cosa mi ha fatto anche piacere, ma quindi ho detto: “Cosa faccio? Con che ruolo vado?” e quindi è nata l’Ikta e ho scoperto che è una cosa che può avere un futuro. E’ un’associazione culturale e quindi non fa agonismo ma fa ricerca, sperimentazione, studio e si propone ai maestri. Non è un’associazione di praticanti ma di insegnanti.
La Feiska (Federazione italiana scuole di karate) purtroppo sì, è un’altra federazione. Devo dire purtroppo perchè la mia intenzione non era quella di uscire dalla Fikta ma di lavorare al suo interno. Dal punto di vista agonistico per me la Fikta andava benissimo, quando io sono uscito mi sono trovato un po’spiazzato: per poter dare uno sbocco agli studenti, a quei poveracci che mi hanno seguito, bisognava avere un’attività agonistica, quindi una federazione che potesse fare quello che non poteva fare l’Ikta. Non è che io sia un grande estimatore dell’agonismo nel karate, sono un estimatore dell’agonismo in generale come miglioramento della personalità, l’agonismo fatto correttamente. A fine 2017 sono andato a Montecatini in occasione di una gara internazionale, ho parlato col presidente dell’Itkf e gli ho detto: “Sono uscito dalla Fikta, so però che anche la Fikta vuole uscire dall’Itkf. Io ritengo questo un grave errore da parte dei dirigenti della Fikta. Se voi mi garantite che la Fikta esce dall’Itkf, il giorno dopo ci sarà un’organizzazione italiana iscritta all’Itkf, che fa il karate che voi chiamate tradizionale e che io chiamo semplicemente karate”.
Ho aspettato sei mesi. Il 26 luglio 2018 è stata fondata la Feiska e il 28 luglio è stata riconosciuta dall’Itkf e successivamente anche dalla Etkf. Su quel muro c’è la locandina del primo campionato italiano che facciamo, purtroppo dopo il campionato europeo che andiamo a fare a Pitesti in Romania dal 13 al 16 giugno. Prima di noi c’era la Fesik iscritta alla Etkf ma mi è stato detto che il presidente della Etkf, dottor Yorga, ha preso contatti col presidente della Fesik comunicando che l’unica federazione italiana che partecipa ai campionati Etka è la Feiska. Devo verificare sul posto se questo è vero e te lo saprò dire fra tre o quattro giorni. Stando al regolamento, per essere riconosciuti da un’associazione europea che ha uno sbocco internazionale prima bisogna passare dall’organismo mondiale e poi da quello europeo. La cosa certa è che noi, documenti alla mano, siamo iscritti ai campionati.

Hai qualche rimpianto e qualche messaggio che vorrebbe comunicare a qualcuno?
- Nessun rimpianto, anzi posso dire una cosa: ho trovato una grande serenità, un enorme entusiasmo e voglia di andare avanti, perchè più studio e più mi viene voglia di studiare. Il mio messaggio è un grande augurio a tutti i miei amici perchè possano avere successo nella Fikta come in altre organizzazioni. Non invito nessuno a venire con me, ma posso dire che parlo con tutti. C’è stato un signore che mi ha detto: “ Ma se io mi scrivo all’Ikta, cosa succede ai miei gradi?” Io ho risposto: “Guarda, dei tuoi gradi non mi importa niente, tu ti tieni i tuoi gradi perchè è la tua organizzazione che te li ha dati e tu devi essere riconoscente alla tua organizzazione. Se vuoi entrare in questa famiglia che è l’Ikta, basta che tu segua i programmi che vengono fatti, puoi anche venire qua a dirmi: “ Dino, sei stupido!” e io ti ringrazio, però bisogna confrontarsi e poi fare le cose, se no è inutile iscriversi, all’Ikta non ci si iscrive per i gradi. Ora ti mostro il profilo dell’associato Ikta: Il maestro Contarelli mi porge la tessera dell’Ikta. All’interno c’è scritto: “L’associato Ikta è un generoso egoista, che non dà nulla per scontato e, come un ricercatore, sa essere critico, ma rispettoso e riconoscente del lavoro altrui. Ama le sfide ed è instancabile nella ripetizione di tecniche che potrebbero aprire la strada a nuove idee. Indomabile e imprevedibile, non teme l’insuccesso e sa condividere i risultati ottenuti. Solidale fino a rasentare l’autolesionismo, è un inguaribile ottimista e non è mai soddisfatto del proprio livello di preparazione

Maestro Contarelli Bernardo


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