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Intervista al Maestro Masatoshi Nakayama: in giappone si fa così
di Carlo Gobbi (1973)
Nakayama Sensei (Questa rarissima intervista, apparsa sulla Gazzetta dello Sport l'11 ottobre 1973, permette di confrontare il karate di allora e quello di oggi).

Sessant'anni, ma non li dimostra. Fisico tarchiato, non proprio asciutto, piuttosto basso di statura, sguardo diritto, acuto, penetrante, Masatoshi Nakayama ha l'aspetto tranquillo, quasi dimesso, della persona tranquilla, probabile pensionato, che sa vedere la vita dallo schermo filtrante dei suoi piccoli occhi di orientale. Invece Masatoshi Nakayama è un personaggio, e che personaggio!
Maestro di karate, cintura nera ottavo dan, grado altissimo quindi nella gerarchia, è inoltre capo degli istruttori della Japan Karate Association. Nella vita insegna storia dell'educazione fisica e teoria di altri sport alla Takushoku University di Tokyo.
E' insomma una specie di scienziato di karate, disciplina orientale che ormai ha fatto numerosissimi proseliti in Europa e tanti davvero in Italia.Ma non è tutto, perché Nakayama, allievo del celebre maestro Funakoshi, colui che perfezionò il karate codificandolo e portandolo dall'isola di Okinawa a Tokyo e quindi in tutto il Giappone, è stato il creatore del moderno karate sportivo.

"Il karate era ed è naturalmente anche oggi anzitutto educazione del corpo e quindi salute del fisico, poi difesa personale. A questi due scopi se ne è aggiunto un altro, quello sportivo."
In poche parole, in un inglese facilmente intelligibile, pronunciato in tono sommesso, Nakayama ci ha dato la definizione del karate.
Sempre con lo stesso tono di voce, col quale, ci assicura Shirai, tiene anche le sue lezioni, apprendiamo che Funakoshi - questo leggendario, mitico personaggio che venne a Tokyo a 50 anni e morì a 88 - insegnò il karate all'università di Keio esattamente nel 1927; che lui, Nakayama, fu uno dei primi allievi (il che attesta che pratica questa arte marziale da oltre quaranta anni) e che subito nel primo dopoguerra lui stesso trasmise l'insegnamento del grande maestro, traducendo la scienza appresa in uno sport.
Il karate è quindi la più giovane delle arti marziali, ma non per questo la meno la meno diffusa. "Il karate - precisa gentilmente Nakayama - ha solo ventotto anni, è sport giovane. Però ha già raggiunto come numero di praticanti, popolarità e diffusione, judo e kendo, che sono arti marziali antiche, di lunghissima tradizione".

- Può tradurre in cifre questa escalation del karate?-
"La Japan Karate Association conta oltre quattrocentomila iscritti, ma il numero di praticanti supera il milione. Stesso numero per il judo, che si è attestato da tempo su questa base,mentre il kendo, di tutte l'arte più antica, praticata dal Medio Evo, è ancora al di sopra di queste cifre".
Non possono stupire queste cifre record, se si considera il particolare sistema di reclutamento in Giappone. La pratica del karate o del judo inizia obbligatoriamente alla scuola superiore; quando il giovane entra all'Università, sceglie un'arte marziale, che fa parte del gruppo di discipline per ogni insegnamento. A livello inferiore, cioè infantile, la pratica è lasciata libera nelle palestre.

Ma l'organizzazione è ancora più capillare, in quanto ogni "high school" (il termine inglese pare sia adottato normalmente anche in Giappone) ha il suo "college" di stile americano, dove i giovani praticano sport. Ogni università ha poi la sua palestra di judo e karate. Logico quindi che ad ogni studente tocchi la sua razione di arte marziale, alla quale si applica con lo stesso entusiasmo e la stessa dedizione che riserva ad altre discipline (o forse anche di più).
"Ma non basta - aggiunge Nakayama - preparare il fisico: nel karate importantissima è la formazione dello spirito. E chi non ha lo spirito adatto per il karate, non potrà mai fare bene il karate".
E' un concetto indubbiamente un po' oscuro per un occidentale e Nakayama capisce e chiarisce: "Anche in Europa ho visto "tirare" molto bene il karate,ma non è solo questo il karate. Lo spirito del karate si avverte quando si comprende che non importa vincere sempre, ma importa tirare bene, magari anche perdendo. In Europa, anche in Italia, troppo spesso si dimentica e si ignora questo concetto, per noi assolutamente basilare. Chi non fa bene karate è chi pensa solo a tirare, a vincere, a fare kumite, cioè combattimento. Ma trascura il kata, cioè la proiezione stilizzata e i fondamentali".
E' effettivamente un concetto un po' difficile per un occidentale abituato all'agonismo spinto, esasperato; è forse il concetto 'decubertiniano' dell' "importante è partecipare" trasferito in Estremo Oriente.

Nakayama avverte questa nostra perplessità di occidentali e sorride aggiungendo:
"Non è poi così difficile capire questo. Anche in Italia ho visto tanti atleti praticare karate con lo spirito adatto. E negli stessi atleti ho visto grandi progressi nella tecnica. Vuol dire che l'insegnamento è buono: duro,ma buono. Ai mondiali in giugno, il pubblico di Tokyo è rimasto molto impressionato dal karate che "tirava" la squadra italiana della Fesika. Ed a Tokyo c'erano tutti i più forti atleti del mondo: americani, tedeschi, sudafricani. Ma il pubblico, tutti anche in televisione (un'ora di trasmissione televisiva dedicata ai mondiali, trasmessa il 5 agosto con interviste assai lusinghiere per la squadra italiana) hanno ammirato gli italiani. Questo vuol dire sacrificio per riuscire ad imparare il karate come i giapponesi, e il pubblico giapponese questo ha capito ed apprezzato.
Forse - conclude Nakayama - fra qualche anno quando anche in Italia ci sarà un milione di praticanti, potranno battere i giapponesi.
Chissà!"

Interviste ai Maestri
Giapponesi - Italiani - Taiji Kase - Hiroshi Shirai - English texts -


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