"..... in società bisogna
tenere la bocca chiusa ed il viso aperto" (D.Bouhours, Entrtiense d'Ariste ed d'Eugene, Paris 1683)
Abbiamo
più volte scritto e affermato che la possibilità d'incontro tra
la cultura occidentale e quella orientale non risiede tanto in
una differenza etnologica ma piuttosto nella capacità di saper
affrontare il problema nella dimensione interiore.
Per far ciò occorre che
l'uomo occidentale si renda disponibile ad ascoltare, riconoscere
e lasciar vibrare l'elemento orientale che è presente dentro di
sé, con tutte le tensioni che ciò implica; tensioni che non occorre
tanto risolvere o annullare quanto saper integrare nella propria
persona. La nostra vita quotidiana possiamo dire che è generalmente
influenzata e condizionata dallo stile di vita sempre più imposto
dal tipo di società in cui viviamo. Siamo profondamente immersi
nei riflessi prodotti dalla tecnologia e dal mercato di consumo
che producono un rumore di fondo, che rimpiccioliscono e riducono
sempre più i confini del tempo e dello spazio soggettivi.
In questo frastuono tele-pubblicitario,
l'unico silenzio che ormai si conosce è paradossalmente quello
della morte, o delle rovine; nei casi peggiori è il silenzio della
rassegnazione, dell'impotenza sullo sfondo di un sentimento in
annientamento. Per fare un esempio basta pensare e riflettere
per un momento a come ci si sente nell'affrontare seriamente e
sinceramente il problema della guerra in Bosnia. Si la vita continua
comunque, nel bel mezzo di questa aggressione soffice e subdola,
della società dei consumi, che sembra paralizzare e condizionare
milioni di persone che si dimostrano incapaci di reagire o resistere
a questo effetto assordante.
La presenza di queste forze,
che possiamo definire come un pericolo, un veleno, una fonte di
inquinamento per la vita interiore, risveglia irresistibilmente
presso una persona fondamentalmente sana la nostalgia ed il bisogno
della quiete, della pace, che non sia il silenzio della morte,
ma il silenzio della vita che si realizza.
Quando non vi è realizzazione
e pienezza interiore, l'uomo si proietta e cerca rifugio in un'attività
frenetica che lo metta in costante contatto con una identità provvisoria
ed haimè illusoria.
Spesso egli identifica
il senso della propria vita e del proprio agire con l'avere, e
si getta in una attività ancor più sfrenata per soddisfare i propri
bisogni indotti dall'esterno. Per molte ragioni vi sono popoli
od epoche che sono più aperte alla dimensione interiore del silenzio.
L'uomo orientale, che rimane fedele ed ancorato alle proprie tradizioni,
grazie alla sua cultura è più vicino a questa dimensione dell'uomo
occidentale.
In effetti l'oriente percepisce
e vive ancora il silenzio come potenza che agisce nella profondità
del proprio animo e che è in grado di discernere, riconoscere,
sviluppare e proteggere. E' per questo che in oriente esiste una
cultura del silenzio. Essa si pone al centro di ogni struttura
della vita e del mondo del soggetto e della società.
Conoscere la cultura del
silenzio significa possedere una chiave di accesso, per esempio,
allo spirito del Giappone.
L'occidentale guardandosi
allo specchio dell'oriente potrà conoscere meglio sè stesso, divenire
consapevole delle proprie potenzialità ancora insospettate e dello
stile di vita che sta vivendo. Gli europei sono molto sconcertati
dal Giappone a causa della sua insensibilità apparente al rumore.
Ad esempio in una stazione ferroviaria i pianti ininterrotti di
un bambino non creano problemi a nessuno. In apparenza una madre
ignora totalmente i giochi tumultuosi dei propri figli. Un professore
sembra non accorgersi dei bambini che giocano rumorosamente nel
luogo ove egli lavora. Questa flemma sorprendete, nei confronti
del rumore, non è dovuta ad una mancanza di udito, ma è piuttosto
il frutto di una lunga educazione.
La capacità di rimanere
impassibili di fronte alla confusione è il risultato di una forza
interiore metodicamente esercitata. Il giapponese deve questa
sua notevole capacità di silenzio interno, nel bel mezzo
del caos quotidiano, grazie ad un lavoro interiore. Egli è indotto
ad acquisire questa capacità per difendersi da quegli agenti che
dall'esterno sono in grado di minacciare la sua struttura. Egli
si difende dall'attacco esterno, come dalla fragilità interiore,
creando uno scudo di protezione che gli permette di rimanere
tranquillo, impassibile di fronte alle vicissitudini della vita.
In questa quiete egli vi trova un profondo sentimento della vita,
vi trova uno spazio in cui respira il suo essere essenziale, vi
trova un centro e diviene uno col tutto. Egli non apprende comunque
a coltivare il silenzio interiore solo per affrontare le traversie
della vita, egli ricerca questa essenza del sé stesso come forma
di possesso durature del proprio IO dentro sé. Ai suoi occhi il
risultato spirituale è più importante del beneficio materiale.
Osservando il Giappone,
le case,i giardini, gli oggetti artigianali, l'arte, l'arte di
vivere è la cultura del silenzio che abbiamo davanti. Esistono
"esercizi del silenzio" che da molto tempo appartengono
in modo naturale alla sfera della vita quotidiana del Giappone.
Essi agiscono sulle abitudini, sulla sensibilità e sono parte
integrante della tradizione, dell'insegnamento e apprendimento
delle diverse arti. Sono insegnate dai maestri che li hanno integrati
nei loro gesti ed espressioni, e che culminano negli esercizi
di meditazione dei monaci buddisti e scintoisti.
Ma da dove viene tutto
ciò?
Alla base della conoscenza
culturale di un popolo troviamo sempre il suo modo di rapportarsi
alla vita e alla morte. Sappiamo che ognuno tende involontariamente,
ma fatalmente a classificare e giudicare gli altri secondo i propri
parametri culturali ed ideologici. Succede così che un europeo
consideri la cultura orientale più primitiva della sua, e rimane
sorpreso quando un orientale giudica la cultura dell'occidentale
inferiore a quella dell'oriente. L'oriente ammette facilmente
il proprio debito culturale nei confronti della tecnologia dell'occidente,
(anche se questo era molto più evidente 30 anni fa e lo
è sempre di meno) alla quale si è affacciato solo da un secolo;
ma ai propri occhi la sopravvalutazione del razionalismo e della
potenza della tecnica dell'occidente, rischia di rigettare nell'ombra
la cultura dell'umano in sé. Tutto ciò è per lui il segno di una
relazione rudimentale ed immatura con la vita e con la morte.
In rapporto alla propria coscienza culturale, il giapponese è
soprattutto colpito da due tendenze istintive e fondamentali della
cultura europea
- il bisogno di assicurare e
realizzare nello spazio e nel tempo la propria esistenza;
- il bisogno e la tendenza a
dominare e controllare razionalmente la conoscenza ed il modo
Tutto ciò viene avvertito come una cosa esagerata. Gli orientali
vi vedono una fonte di errore. La cultura appare ai loro occhi
soprattutto come una civiltà materialistica, una cultura dello
spirito obiettivo.
L'orientale guarda con stupore misto di rispetto la battaglia
dell'occidente contro i bisogni dell'esistenza, soprattutto quando
grazie alle invenzioni, alla tecnologia i bisogni che nascono
sono sempre più frequenti, sempre più nuovi, hanno un tempo di
vita nel sociale e nell'animo umano brevissimo, e questo non stupisce
più nessuno. L'uomo della tradizione del Giappone è sconcertato
dai ritmi e cambiamenti che l'economia di mercato ed il modello
occidentale hanno ormai introdotto presso la sua gente, ed è incapace
di capire dove va a finire questa folle corsa al benessere e al
godimento dell'occidente. La visione della tradizione giapponese
della vita è fondamentalmente diversa da quella imposta dalla
società dei consumi, in cui tutto deve esser perfetto, in cui
l'anziano è un rottame, non più come nel passato un saggio, ed
include all'opposto anche la visione della morte come parte integrante.
L'esempio della relazione tra l'albero e la foglia anche se
schematico potrà forse illustrare tale concetto.
Prendiamo ad esempio una piccola foglia attaccata all'albero.
Se questa foglia avesse ad esempio una coscienza individuale che
limiti il suo sentimento e percezione della vita alla semplice
condizione individuale di foglia, il significato della propria
esistenza si esaurirebbe nell'arco di tempo della propria vita
come foglia. La morte autunnale significherebbe per lei l'annientamento
e come tale si opporrebbe alla sua percezione della vita. Niente
di strano dunque se la foglia si sforza di gioire al massimo grado
la propria breve esistenza di foglia cercando di proteggersi contro
l'autunno e l'inverno e di dimenticare la paura della morte. Si
rifugerà nella speranza di poter rimanere in un perpetuo stato
ideale di foglia.
Ma la sua battaglia posta in questi termini è già persa.
Ma la piccola foglia potrebbe per contro, grazie ad una consapevolezza
più profonda di sé, percepire il proprio esser foglia come una
modalità dell'albero, e vivere il proprio essere come albero.
Sarebbe certamente più vicina alla realtà se la sua coscienza
di esistere divenisse uno con quella dell'albero. L'albero la
cui grande vita produce la piccola esistenza della foglia, e che
sopravvivendole include dunque sia la vita che la morte della
piccola foglia.
Senza spingersi troppo oltre con questo aneddoto classico, possiamo
però operare delle analogie dicendo che la vita familiare e della
società giapponese è simile a quello della "grande vita dell'albero"
che supera ogni "piccola esistenza" e la morte che questi
implica. Quando una piccola esistenza prende coscienza dell'essere
nel quale vive e si apre alla totalità, tutto questo ha il significato
di accertare di appartenere alla "grande vita" nella
propria "piccola esistenza" ed imparare a realizzarla
docilmente, ovvero dominare la tendenza naturale della piccola
esistenza ad affermarsi come una individualità assoluta opponendosi
alla morte e all'impermanenza.
Nell'ottica della cultura giapponese, la nostra cultura occidentale
sembra derivare da un rapporto non risoluto con la morte. La morte
imprigiona l'uomo nella propria follia di durare e sopravvivere
in un universo temporale grazie alle realizzazioni e conquiste
della tecnica, che da mezzo trasformano la sua vita in fine e
che mascherano la vera natura ed essenza della vita. Vista da
questa prospettiva la cultura del Giappone sembra esprimere in
modo più appropriato il superamento dell'angoscia di morte naturalmente
presente in ogni essere vivente. Per l'uomo orientale la natura
della vita si manifesta nel movimento e mutamento di tutte le
cose. In inverno si ha freddo perché è inverno. E la morte? Fa
parte della vita. Pensare diversamente significa agli occhi di
un orientale, non aver compreso molto, significa non esser ancora
sulla via. La via, il Do, e sempre uguale. É quella sulla quale
l'uomo grazie alla propria unità con la "grande via"
accetta umilmente la legge eterna dei mutamenti. Sembra abbastanza
evidente che una parte maggioritaria e dominante della nostra
cultura sia soprattutto una cultura dell'opera. Una cultura che
grazie all'osservazione e alla creazione si misura con 1 e forze
della natura e cerca di vincerle e soggiogarle con l'intelligenza.
In questo agire essa cerca inoltre di assicurare dignità e libertà
ad un uomo indipendente che sfida le leggi del tempo. All'opposto
la cultura dell'oriente e piuttosto quella della via interiore
in cui l'uomo accetta l'esistenza sottomettendosi alla legge delle
trasformazioni che la governano e ricercando la perfezione nell'unione
con la vita di cui esse sono le passeggere manifestazioni.
L'orientale non scopre il segreto dell'adesione alla via alla
fine della propria esistenza, dopo sofferenze ed insuccessi. Egli
sembra possederla come un'esperienza fondamentale felice durante
tutto il corso della propria esistenza. Affinché una cultura del
silenzio possa divenire un fattore determinante, una modalità
dell'essere e del rapportarsi al mondo, occorre che sin dalla
gioventù l'uomo veda in ciò che il silenzio fa sbocciare il senso
stesso della vita. Si tratta di comprendere una disposizione dello
spirito nella quale si percepisce, al di là di ogni discordanza
la grande armonia e al di là di ogni opposizione l'unità essenziale
che attraversa tutta l'esistenza umana così da non perdere mai
di vista, neppure per un istante, la propria direzione.
Centro vitale della cultura del
silenzio è l'esercizio, la pratica.
Buon allenamento
Oss
Luciano Puricelli