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LA CULTURA DEL SILENZIO
LA CULTURA DEL SILENIO - L'actio: quest'arte silenziosa del corpo eloquente
A cura di Luciano Puricelli - I testi sono © dell'autore tutti i diritti riservati

"..... in società bisogna tenere la bocca chiusa ed il viso aperto" (D.Bouhours, Entrtiense d'Ariste ed d'Eugene, Paris 1683)

Luciano1.jpg (192623 byte)Abbiamo più volte scritto e affermato che la possibilità d'incontro tra la cultura occidentale e quella orientale non risiede tanto in una differenza etnologica ma piuttosto nella capacità di saper affrontare il problema nella dimensione interiore.

Per far ciò occorre che l'uomo occidentale si renda disponibile ad ascoltare, riconoscere e lasciar vibrare l'elemento orientale che è presente dentro di sé, con tutte le tensioni che ciò implica; tensioni che non occorre tanto risolvere o annullare quanto saper integrare nella propria persona. La nostra vita quotidiana possiamo dire che è generalmente influenzata e condizionata dallo stile di vita sempre più imposto dal tipo di società in cui viviamo. Siamo profondamente immersi nei riflessi prodotti dalla tecnologia e dal mercato di consumo che producono un rumore di fondo, che rimpiccioliscono e riducono sempre più i confini del tempo e dello spazio soggettivi.

In questo frastuono tele-pubblicitario, l'unico silenzio che ormai si conosce è paradossalmente quello della morte, o delle rovine; nei casi peggiori è il silenzio della rassegnazione, dell'impotenza sullo sfondo di un sentimento in annientamento. Per fare un esempio basta pensare e riflettere per un momento a come ci si sente nell'affrontare seriamente e sinceramente il problema della guerra in Bosnia. Si la vita continua comunque, nel bel mezzo di questa aggressione soffice e subdola, della società dei consumi, che sembra paralizzare e condizionare milioni di persone che si dimostrano incapaci di reagire o resistere a questo effetto assordante.

La presenza di queste forze, che possiamo definire come un pericolo, un veleno, una fonte di inquinamento per la vita interiore, risveglia irresistibilmente presso una persona fondamentalmente sana la nostalgia ed il bisogno della quiete, della pace, che non sia il silenzio della morte, ma il silenzio della vita che si realizza.

Quando non vi è realizzazione e pienezza interiore, l'uomo si proietta e cerca rifugio in un'attività frenetica che lo metta in costante contatto con una identità provvisoria ed haimè illusoria.

Spesso egli identifica il senso della propria vita e del proprio agire con l'avere, e si getta in una attività ancor più sfrenata per soddisfare i propri bisogni indotti dall'esterno. Per molte ragioni vi sono popoli od epoche che sono più aperte alla dimensione interiore del silenzio. L'uomo orientale, che rimane fedele ed ancorato alle proprie tradizioni, grazie alla sua cultura è più vicino a questa dimensione dell'uomo occidentale.

In effetti l'oriente percepisce e vive ancora il silenzio come potenza che agisce nella profondità del proprio animo e che è in grado di discernere, riconoscere, sviluppare e proteggere. E' per questo che in oriente esiste una cultura del silenzio. Essa si pone al centro di ogni struttura della vita e del mondo del soggetto e della società.

Conoscere la cultura del silenzio significa possedere una chiave di accesso, per esempio, allo spirito del Giappone.

L'occidentale guardandosi allo specchio dell'oriente potrà conoscere meglio sè stesso, divenire consapevole delle proprie potenzialità ancora insospettate e dello stile di vita che sta vivendo. Gli europei sono molto sconcertati dal Giappone a causa della sua insensibilità apparente al rumore. Ad esempio in una stazione ferroviaria i pianti ininterrotti di un bambino non creano problemi a nessuno. In apparenza una madre ignora totalmente i giochi tumultuosi dei propri figli. Un professore sembra non accorgersi dei bambini che giocano rumorosamente nel luogo ove egli lavora. Questa flemma sorprendete, nei confronti del rumore, non è dovuta ad una mancanza di udito, ma è piuttosto il frutto di una lunga educazione.

La capacità di rimanere impassibili di fronte alla confusione è il risultato di una forza interiore metodicamente esercitata. Il giapponese deve questa sua notevole capacità di silenzio interno, nel bel mezzo del caos quotidiano, grazie ad un lavoro interiore. Egli è indotto ad acquisire questa capacità per difendersi da quegli agenti che dall'esterno sono in grado di minacciare la sua struttura. Egli si difende dall'attacco esterno, come dalla fragilità interiore, creando uno scudo di protezione che gli permette di rimanere tranquillo, impassibile di fronte alle vicissitudini della vita. In questa quiete egli vi trova un profondo sentimento della vita, vi trova uno spazio in cui respira il suo essere essenziale, vi trova un centro e diviene uno col tutto. Egli non apprende comunque a coltivare il silenzio interiore solo per affrontare le traversie della vita, egli ricerca questa essenza del sé stesso come forma di possesso durature del proprio IO dentro sé. Ai suoi occhi il risultato spirituale è più importante del beneficio materiale.

Osservando il Giappone, le case,i giardini, gli oggetti artigianali, l'arte, l'arte di vivere è la cultura del silenzio che abbiamo davanti. Esistono "esercizi del silenzio" che da molto tempo appartengono in modo naturale alla sfera della vita quotidiana del Giappone. Essi agiscono sulle abitudini, sulla sensibilità e sono parte integrante della tradizione, dell'insegnamento e apprendimento delle diverse arti. Sono insegnate dai maestri che li hanno integrati nei loro gesti ed espressioni, e che culminano negli esercizi di meditazione dei monaci buddisti e scintoisti.

Ma da dove viene tutto ciò?

Alla base della conoscenza culturale di un popolo troviamo sempre il suo modo di rapportarsi alla vita e alla morte. Sappiamo che ognuno tende involontariamente, ma fatalmente a classificare e giudicare gli altri secondo i propri parametri culturali ed ideologici. Succede così che un europeo consideri la cultura orientale più primitiva della sua, e rimane sorpreso quando un orientale giudica la cultura dell'occidentale inferiore a quella dell'oriente. L'oriente ammette facilmente il proprio debito culturale nei confronti della tecnologia dell'occidente, (anche se questo era molto più evidente 30 anni fa e lo è sempre di meno) alla quale si è affacciato solo da un secolo; ma ai propri occhi la sopravvalutazione del razionalismo e della potenza della tecnica dell'occidente, rischia di rigettare nell'ombra la cultura dell'umano in sé. Tutto ciò è per lui il segno di una relazione rudimentale ed immatura con la vita e con la morte. In rapporto alla propria coscienza culturale, il giapponese è soprattutto colpito da due tendenze istintive e fondamentali della cultura europea
  • il bisogno di assicurare e realizzare nello spazio e nel tempo la propria esistenza;
  • il bisogno e la tendenza a dominare e controllare razionalmente la conoscenza ed il modo
Tutto ciò viene avvertito come una cosa esagerata. Gli orientali vi vedono una fonte di errore. La cultura appare ai loro occhi soprattutto come una civiltà materialistica, una cultura dello spirito obiettivo.

L'orientale guarda con stupore misto di rispetto la battaglia dell'occidente contro i bisogni dell'esistenza, soprattutto quando grazie alle invenzioni, alla tecnologia i bisogni che nascono sono sempre più frequenti, sempre più nuovi, hanno un tempo di vita nel sociale e nell'animo umano brevissimo, e questo non stupisce più nessuno. L'uomo della tradizione del Giappone è sconcertato dai ritmi e cambiamenti che l'economia di mercato ed il modello occidentale hanno ormai introdotto presso la sua gente, ed è incapace di capire dove va a finire questa folle corsa al benessere e al godimento dell'occidente. La visione della tradizione giapponese della vita è fondamentalmente diversa da quella imposta dalla società dei consumi, in cui tutto deve esser perfetto, in cui l'anziano è un rottame, non più come nel passato un saggio, ed include all'opposto anche la visione della morte come parte integrante.

L'esempio della relazione tra l'albero e la foglia anche se schematico potrà forse illustrare tale concetto.

Prendiamo ad esempio una piccola foglia attaccata all'albero. Se questa foglia avesse ad esempio una coscienza individuale che limiti il suo sentimento e percezione della vita alla semplice condizione individuale di foglia, il significato della propria esistenza si esaurirebbe nell'arco di tempo della propria vita come foglia. La morte autunnale significherebbe per lei l'annientamento e come tale si opporrebbe alla sua percezione della vita. Niente di strano dunque se la foglia si sforza di gioire al massimo grado la propria breve esistenza di foglia cercando di proteggersi contro l'autunno e l'inverno e di dimenticare la paura della morte. Si rifugerà nella speranza di poter rimanere in un perpetuo stato ideale di foglia.

Ma la sua battaglia posta in questi termini è già persa.

Ma la piccola foglia potrebbe per contro, grazie ad una consapevolezza più profonda di sé, percepire il proprio esser foglia come una modalità dell'albero, e vivere il proprio essere come albero. Sarebbe certamente più vicina alla realtà se la sua coscienza di esistere divenisse uno con quella dell'albero. L'albero la cui grande vita produce la piccola esistenza della foglia, e che sopravvivendole include dunque sia la vita che la morte della piccola foglia.

Senza spingersi troppo oltre con questo aneddoto classico, possiamo però operare delle analogie dicendo che la vita familiare e della società giapponese è simile a quello della "grande vita dell'albero" che supera ogni "piccola esistenza" e la morte che questi implica. Quando una piccola esistenza prende coscienza dell'essere nel quale vive e si apre alla totalità, tutto questo ha il significato di accertare di appartenere alla "grande vita" nella propria "piccola esistenza" ed imparare a realizzarla docilmente, ovvero dominare la tendenza naturale della piccola esistenza ad affermarsi come una individualità assoluta opponendosi alla morte e all'impermanenza.

Nell'ottica della cultura giapponese, la nostra cultura occidentale sembra derivare da un rapporto non risoluto con la morte. La morte imprigiona l'uomo nella propria follia di durare e sopravvivere in un universo temporale grazie alle realizzazioni e conquiste della tecnica, che da mezzo trasformano la sua vita in fine e che mascherano la vera natura ed essenza della vita. Vista da questa prospettiva la cultura del Giappone sembra esprimere in modo più appropriato il superamento dell'angoscia di morte naturalmente presente in ogni essere vivente. Per l'uomo orientale la natura della vita si manifesta nel movimento e mutamento di tutte le cose. In inverno si ha freddo perché è inverno. E la morte? Fa parte della vita. Pensare diversamente significa agli occhi di un orientale, non aver compreso molto, significa non esser ancora sulla via. La via, il Do, e sempre uguale. É quella sulla quale l'uomo grazie alla propria unità con la "grande via" accetta umilmente la legge eterna dei mutamenti. Sembra abbastanza evidente che una parte maggioritaria e dominante della nostra cultura sia soprattutto una cultura dell'opera. Una cultura che grazie all'osservazione e alla creazione si misura con 1 e forze della natura e cerca di vincerle e soggiogarle con l'intelligenza. In questo agire essa cerca inoltre di assicurare dignità e libertà ad un uomo indipendente che sfida le leggi del tempo. All'opposto la cultura dell'oriente e piuttosto quella della via interiore in cui l'uomo accetta l'esistenza sottomettendosi alla legge delle trasformazioni che la governano e ricercando la perfezione nell'unione con la vita di cui esse sono le passeggere manifestazioni.

L'orientale non scopre il segreto dell'adesione alla via alla fine della propria esistenza, dopo sofferenze ed insuccessi. Egli sembra possederla come un'esperienza fondamentale felice durante tutto il corso della propria esistenza. Affinché una cultura del silenzio possa divenire un fattore determinante, una modalità dell'essere e del rapportarsi al mondo, occorre che sin dalla gioventù l'uomo veda in ciò che il silenzio fa sbocciare il senso stesso della vita. Si tratta di comprendere una disposizione dello spirito nella quale si percepisce, al di là di ogni discordanza la grande armonia e al di là di ogni opposizione l'unità essenziale che attraversa tutta l'esistenza umana così da non perdere mai di vista, neppure per un istante, la propria direzione.

Centro vitale della cultura del silenzio è l'esercizio, la pratica.
Buon allenamento
Oss
Luciano Puricelli

Shinjtzu - Interviste - Storia


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