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KUJIKERUNA Non Mollate MAI!


KUJIKERUNA

Non cedere, non mollare mai
Il significato di "tenere duro"

Il significato di “tenere duro”
(mi scuso con chi legge , se questo lungo pezzo non parla di solo karate. Ma il karate è un modo di orientare la propria vita.
Questa è una parte del mio karate).

Ho cominciato a praticare il karate quando avevo 14 anni. Prima nuotavo a livello agonistico e dedicavo alla piscina tre ore tutti i giorni feriali, mentre la domenica gareggiavo.  Quando – esausto per questi ritmi – ho deciso di smettere di nuotare e sono entrato per la prima volta in quello che sarebbe diventato il mio dojo, non avevo un'idea precisa di cosa mi avrebbe aspettato sul tatami, mi bastava fare qualcosa di stimolante e totalmente diverso. Il karate poteva esserlo e due allenamenti settimanali mi sembravano un modo molto semplice per scoprirlo.

Quando nuotavo, mi urlavano (probabilmente per essere sicuri che sentissi sotto acqua e con la cuffia): “non mollare fino a che non sfondi il muretto!!!”, qui invece, con molta più tranquillità, mi spiegavano che “bisogna tenere sempre, anche quando il fisico cede”, ed io, in entrambe le situazioni, non mi sono mai tirato indietro.

Ho sempre considerato l'idea di “non mollare” un qualcosa di nobile e necessario nella costruzione della persona che avrei voluto diventare. Il “tenere duro” - mentalmente e fisicamente - è un concetto che considero un gradino sopra la semplice forza di volontà e, quando – dopo 6 anni di pratica – mi sono accorto che non era rimasto nessuno dei compagni che aveva cominciato con me il percorso – tecnico e formativo – proposto dal Maestro, ho pensato di essere davvero diventato “uno che non molla”.

Tutte le cose della vita le ho affrontate da questa prospettiva, ottenendo molti ottimi risultati, ma evitando di pormi delle domande che probabilmente mi avrebbero messo in difficoltà, anche se mi sarebbero servite molto. Nello studio, nel lavoro, nella pratica, sono sempre partito dal punto di vista che non avrei mollato – e infatti non è mai successo –, ma quelle domande che non mi ero fatto prima, si sono ripresentate con prepotenza, e questa volta non potevo davvero evitarle.

Negli ultimi tre o quattro anni ho trascorso molto tempo a ragionare e a domandarmi quando fosse necessario veramente tenere duro, se ne valesse la pena, quando e per chi farlo, senza per questo tralasciare gli evidenti vantaggi di mollare, almeno in certe occasioni...
...e così mi sono accorto che “tenere duro” è davvero necessario, e che quando non avevo la capacità di capirne l'effettivo significato, le persone che si erano prese l'impegno della mia formazione – i miei genitori, i maestri e gli amici -  me lo avevano insegnato, nel mio futuro interesse. Contemporaneamente però, mi sono anche reso conto che, una volta giunto ad un certo grado di maturità, era altrettanto necessaria una rielaborazione di questo e di tutti gli altri concetti interiorizzati fino ad allora.

Ho cominciato a lavorare proprio sulle situazioni in cui tenere duro mi risultava più difficile e soffocante. Le ho affrontate con sincerità cercando di staccarmi da ciò che avvertivo come una pressione indebita che alterava – nel bene e nel male – la capacità di vedere con i miei occhi la direzione che stava prendendo la mia vita.
I risultati di questa operazione sono stati devastanti, per me e per tutte le mie certezze e convinzioni. Ho pensato di essere in procinto di perdere punti di riferimento importanti, ma nonostante fosse difficile – a volte perfino doloroso – ho voluto continuare il mio percorso e ho raggiunto il punto in cui niente di quello su cui avevo costruito la mia vita mi sembrava più la scelta giusta o la più adatta.

Una delle concrete conseguenze del distacco dai “motori esterni” della mia capacità di tenere duro è stato comprendere che avevo sbagliato a scegliere il mio percorso di studi; ho rimediato tenendo duro per altri tre massacranti anni di università, costruendomi una strada che era sempre stata in me, anche se non me lo ero mai domandato.

Un'altra conseguenza – molto più coerente con il contesto in cui finiranno queste righe – è stata che volevo smettere di praticare il karate.

Gradualmente, mi stavo rendendo conto che gli allenamenti non mi davano praticamente niente di quello che avrebbero dovuto darmi dopo 14 anni di pratica. Evidentemente non avevo capito quale funzione dovesse avere per me, quale fosse il mio karate. Eppure molte volte i Maestri hanno insistito sulla necessità di questa ricerca interiore, ma probabilmente, l'avere qualcuno che mi diceva cosa dovevo ricercare (non “fare tecnicamente”) e come ricercarlo, mi aveva sollevato da ogni dovere di studio. E poi, cadesse il cielo, la priorità era “tenere duro”.

Quando sono partito per il Cairo quest'autunno mi sembrava evidente che al mio ritorno non avrei più praticato il karate. Mi ero allenato qualche volta in settembre, ma era un sacrificio a vuoto. Dovevo tenere duro ancora? Oppure era il caso di mollare. Alla luce dei nuovi ragionamenti cui mi ero dedicato con tanta sincerità, era il caso di mollare. Se avessi continuato con questa cattiva percezione interna, lo avrei fatto evidentemente solo per “tenere duro”, nell'interesse del Maestro, non certo nel mio. Dopo tutto, avevo sentito dire milioni di volte sul tatami che se il karate non dà una sensazione particolare di crescita e di soddisfazione personale, tanto vale smettere, o fare ginnastica. Dopo 14 anni era arrivato il momento.

Non voglio dire che ho fatto karate inutilmente per tutto questo tempo senza che mi piacesse o mi desse soddisfazione, come un ragazzino – totalmente privo di sensibilità e capacità di capire quello che vuole – obbligato dai genitori e dal maestro a praticare una disciplina marziale – tutt'altro! Fino ai vent'anni il sistema ha funzionato e mi è servito tantissimo. Più semplicemente, non avevo fatto il salto di qualità che è necessario nel nostro dojo per essere al livello dell'insegnamento che  riceviamo. Questo era frustrante.

Quando a gennaio sono ritornato sul tatami, fuori forma, con altri interessi, lavori e con i miei compagni avanzati di un grado, niente – meno di prima della partenza – remava in direzione di una ripresa della pratica.

Ed è a questo punto che mi sono accorto che non volevo mollare.

Lentamente ho iniziato a lavorare in un modo differente, a costruire sui miei limiti e sulle mie capacità percependo quali siano e, finalmente (!) sento qualcosa che si muove e capisco dove devo migliorare e la necessità di farlo.
Faccio grossi sacrifici per riuscire ad allenarmi due volte alla settimana, e quando mi alleno do il cento per cento. Lo considero il modo più sincero di dare consistenza alla mia pratica e di far capire a chi mi sta dietro che quello che fa per me è davvero importante. Non partecipo ad altre attività semplicemente perché, in questo momento della mia vita, non fanno parte del mio percorso... non credo di mollare non partecipandovi, né tanto meno di fare un torto a chi vorrebbe che ci fossi; è l'esatto contrario.

Penso che se mi dovessi svegliare presto uno dei pochi giorni al mese in cui non mi aspetta una giornata di studio/lavoro/volontariato – oppure se dovessi rinunciare ad un'attività per cui ho lavorato a tempo pieno e gratuitamente per mesi – per partecipare a qualcosa che – al momento – non sento mio, non sarebbe sincero né verso la mia pratica, né verso il Maestro né tanto meno verso il karate.
Sarebbe piuttosto presenziare senza attenzione, stancarmi, togliere energia da quella che al momento è la direzione in cui va il mio percorso – nel karate come nella vita – e per il quale sto lottando duramente per non smettere.

Seguire questo percorso, con le sue curve e i suoi ostacoli fino alla fine è la cosa per cui – anche se con enorme sacrificio – vale veramente la pena di “tenere duro” e ne rappresenta allo stesso tempo il suo reale significato. Un giorno, forse, diversi sentieri si incontreranno e proseguiranno nella stessa direzione.

Hitotsu, Makoto no Michi o Mamoru Koto, percorri la via della sincerità.
Questo è il mio karate e la mia vita.

Pietro de Perini

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