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KUJIKERUNA Non Mollate MAI!


KUJIKERUNA

Non cedere, non mollare mai
Karate Ni sente nashi o Karate Wa sente de aru
A cura di Davide Rizzo
testo tratto dalla rivista Karate Do - 17 Novembre 2010
Nel 2004 venne pubblicato sulla rivista Hiroshima University of Economics Journal of Humanities, Social and Natural Sciences ( Testo originale in pdf) un articolo sul celebre precetto che ogni karate-ka sente molto familiare: Karate ni Sente Nashi, nel Karate non ci deve essere iniziativa di attaccare.

La frase è diventata uno dei 20 precetti (Niju Kun) del fondatore dello stile Shotokan Gichin Funakoshi, il secondo per precisione, dopo quello che indica che: Il Karate deve incominciare e terminare con cortesia.
Sicuramente Gichin Funakoshi dava una notevole importanza al secondo dei suoi principi, tanto che in un suo articolo del 1935 su di una rivista disse che “rappresenta l’essenza del Karate-do” (Funakoshi, Karate no hanashi, 65).

Oltre a lui, anche Shoshin Nagamine, fondatore della scuola Matsubayashi dello stile Shorin Ryu scrisse che incarna l’essenza del Karate di Okinawa. Masatoshi Nakayama, per lungo tempo a capo della JKA,  scrisse che “non è esagerato sostenere che questo principio esprime sinteticamente e pienamente lo spirito del Karate.”

Da ciò dovrebbe conseguire che ogni serio praticante di Karate dovrebbe tenere questo principio come fondamentale nel proprio comportamento e nel proprio atteggiamento. Molti però hanno discusso sul significato di primo attacco: infatti, in base ai differenti significati, il senso della frase cambia completamente, e soprattutto la sua applicazione pratica.

Da un lato infatti si sostiene che l’applicazione pratica del principio comporta che si debba sempre aspettare l’attacco reale dell’avversario prima di poter usare le proprie tecniche, come sembrerebbe anche comprovare il fatto che i kata, sequenze di tecniche formalizzate nel corso del tempo, cominciano sempre con una parata.
Dall’altro però si ribatte che un attacco può anche consistere in qualcosa di diverso da un colpo in senso solo fisico e che quindi una volta che si è realizzata  una situazione di aggressione, anche solo verbale, si è autorizzati a rispondere con le proprie tecniche.

Cosa dicevano in proposito i quattro leggendari Maestri che introdussero il karate-jutsu di Okinawa in Giappone, cioè Gichin Funakoshi, Choki Motobu, Chojun Miyagi e Kenwa Mabuni?

Di Funakoshi abbiamo detto, Miyagi ne fa un solo cenno – almeno negli scritti che ci sono pervenuti – notando che il divieto di attaccare per primi spesso non viene applicato.

Nel 1932, invece, Choki Motobu, nel suo “Il mio Karate-jutsu” si esprime più esplicitamente così: “(…) apparentemente molte persone interpretano questo principio in modo letterale, e dichiarano che “non si deve attaccare per primi”, ma io penso che si stiano sbagliando profondamente. Certamente, non è nello spirito del budo allenarsi con l’obiettivo di colpire gli altri senza una buona ragione. Do per scontato che si sappia che lo scopo primario deve essere quello di allenare la mente e il corpo. Il suo significato quindi è che non bisogna danneggiare gli altri senza motivo.  Ma quando la situazione non può essere sostenuta, cioè quando si cerca di evitare problemi, ma non è possibile; quando un avversario manifesta seriamente l’intenzione di danneggiarvi, bene, opponetevi fieramente e combattete. Quando si combatte, è fondamentale prendere il controllo dell’avversario, e bisogna prendere il controllo muovendosi per primi. Quindi, in un combattimento occorre attaccare per primi, è molto importante ricordarlo”. Addirittura, in una raccolta di detti del M. Motobu, il principio pare essere ribaltato: Karate wa sente de aru (il Karate è il primo attacco). Insomma, quando non se ne può fare a meno, si deve attaccare per primi, sostiene Motobu.

Kenwa Mabuni è il fondatore della scuola Shito ryu; tra i suoi libri, Kobo kenpo karate-do nyumon  è considerato come uno dei più importanti nella storia del Karate. Il capitolo 10 è intitolato: “Modi corretti e scorretti di intendere il significato di ‘Karate ni Sente Nashi”: "Esiste il precetto “karate ni sente nashi.” Letteralmente indica l’attitudine mentale di non voler a tutti i costi o di non essere inclini al combattimento. E’ l’insegnamento per cui uno per il solo fatto che si è allenato nel Karate non è che debba rudemente colpire gli altri con calci e pugni.    Ci sono due tipi di interpretazioni errate, e vorrei correggerle.
Il primo è un errore che commettono quelli che non sono dei praticanti del Karate.
Loro dicono: “In tutti i combattimenti l’opportunità di vittoria è in base al balzo che fate contro l’avversario.” Un atteggiamento passivo come quello di sente nashi è incompatibile con il Budo giapponese. Questo concetto non tiene conto dello scopo fondamentale di Budo: BU ha come ideale il fermare la lancia, e come fine mantenere la pace. Coloro che sostengono quello non comprendono che il vero spirito del Budo è di non essere bellicosi.
Quando incontriamo qualcuno che distrugge la pace o che farà male a qualcuno, si è come dei guerrieri in battaglia, e quindi vale la ragione per cui si dovrebbe balzare sul nemico e impedirgli l’uso della violenza. Questa azione non va assolutamente contro il principio di sente nashi.

Il secondo è una errata interpretazione da parte dei praticanti il karate.  E’ un approccio che non considera il sente nashi come un’attitudine,  ma come una regola letterale, di comportamento da seguire rigidamente. Come detto sopra, quando è assolutamente necessario, quando si sta già affrontando una battaglia, è una verità di strategia ormai accettata che uno dovrebbe cercare di prendere sensen no sen  (azione preventiva) e anticipare le azioni del nemico.
In conclusione, l’espressione karate ni sente nashi dovrebbe essere compresa nel modo coretto, e cioè che una persona che pratica il karate non deve mai assumere un atteggiamento bellicoso, cercando di creare un incidente: lui o lei dovrebbe sempre avere le virtù della calma,  della prudenza, e dell’umiltà nel rapporto con gli altri.
(K. Mabuni e G. Nakasone, Kobo kenpo karate do nyumon, 1938).

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