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KUJIKERUNA Non Mollate MAI!


KUJIKERUNA

Non cedere, non mollare mai
Tesi per corso Maestro
1996-1998
A cura di Davide Rizzo

Dedicata a Manuela
senza la cui pazienza........

STORIE DI VITA 

Nel corso dei secoli, letteratura, filosofia e feuilleton hanno legittimato le biografie e le storie di vita di personaggi, autori e gente comune, come luogo di conoscenza e di informazione.  Nella seconda parte del nostro secolo, la ricerca sociologica e in particolare la scuola di Chicago, ha utilizzato i racconti degli emigranti e di coloro che si sono sentiti pionieri del cambiamento, per evidenziare i processi e le strutture sociali delle trasformazioni, che hanno percorso gran parte della nostra storia prossima. Dunque la semplice storia di vita da letteratura diventa strumento di ricerca e dunque di scienza dell’evoluzione e del cambiamento.  La scoperta del potenziale trasformativo delle storie di vita, ha convinto le scienze umane ad utilizzare le storie di vita come strumento non più solo di informazione e di conoscenza, ma anche di formazione e di conoscenza di sé.

Il conosci te stesso di Socrate diventa dunque conosci la tua storia per decidere il tuo cambiamento.

Nell'età adulta l’operazione del cambiamento è sempre difficile: abitudini, formae mentis e complessità della vita non sempre ci permettono di padroneggiare la nostra evoluzione.

Inoltre la modernità con la sua complessità, la velocità e la multilateralità domandano un pensiero sempre più plurale e sistemico. Principi ben saldi rischiano sempre forti dissonanze cognitive senza che ne diventiamo coscienti.

Il compito dell’adulto nella sua veste etica impone dunque il sorvegliarsi il più possibile affinché la vita non sia un luogo di ripetizioni e di abitudini, ma un luogo creativo di esperienze, che si rinnovano nei loro processi, e di cambiamenti costruttivi della personalità.

Se questo è fondamentale per qualsiasi adulto è ancora più importante per un aspirante Maestro di karate.

Conoscere la propria storia, significa individuare quelle caratteristiche si, che ci hanno fatto diventare quello che siamo, ma significa anche individuare dentro di noi quelle potenzialità poco o ancora inespresse che ci rendono più ricchi, aperti e disponibili all’evoluzione e al cambiamento.

La nostra società occidentale, si è sempre confrontata con il cambiamento, sicuramente privilegiando il livello tecnico rispetto al livello filosofico, ma la tecnica a lungo andare modifica anche la filosofia, non sempre portando con sé la consapevolezza del mutamento. Anche l’Oriente si è sempre confrontato con il mutamento, un mutamento vincolato maggiormente dalla filosofia e dalla norma. Tra Occidente e Oriente i processi e i risultati sono stati sicuramente diversi ma ora in un quadro di globalizzazione culturale e professionale si rende necessario una possibilità di comunicazione e una possibilità di conoscenza, che porti all’interazione pur rispettando le specifiche differenze. Il Karate non può essere visto come una Giaponesizzazione dell’Occidente ma un aspetto della cultura Orientale che ci trasmette ulteriori conoscenze e innovazioni. Un futuro Maestro di arti marziali necessariamente si deve confrontare con un doppio legame: il legame con la propria storia occidentale dove è nato e cresciuto, un legame con la storia orientale che ha scelto e sviluppato.

Quali tratti cognitivi, psicologici, sociali, etici e fisici ha prodotto questi incroci con la storia?

Quale personalità di risulta esce da questo doppio legame? Quali valori guidano il fare, l’essere e il sapere?

Con queste pagine intendo avvicinarmi alle problematiche di parte della mia storia di vita al fine di capire meglio il rapporto tra me stesso e il Karate e tra il mio personale modo di vedere il Karate e lo scopo dell’insegnamento.

Questo serve a migliorare il mio avanzamento nella disciplina e nello stesso tempo a cercare sempre di riattualizzarla nei contesti nei quali la esprimo.

A cura di Davide Rizzo

STORIE DI VITA E FORMAZIONE

Inizio a praticare Karate all’età di 17 anni (1971) e scopro il Karate attraverso un amico che, conoscendomi abbastanza bene, mi invita in una palestra a seguire un allenamento. Mi ritrovo così faccia a faccia con quello che sarebbe diventato di li a poco il mio primo Maestro. Il Maestro è Bruno Demichelis e la palestra era il C.S.K.S. (Centro Studi Karate Shotokan) di Venezia.

Chiedo subito il permesso di iscrivermi. Domando se ci sono dei problemi a praticare questa disciplina per uno con le mie caratteristiche fisiche, mi viene risposto che non c’è alcun problema a praticare l’attività, premetto che io dalla nascita soffro di poliomielite alla gamba sinistra con conseguente atrofizzazione della muscolatura del polpaccio e blocco parziale della caviglia.

Le rassicurazioni sembravano vere, la disciplina non sembrava difficile, i calci potevano essere tirati per terra, la posizione era, devo onestamente dire, molto comoda per me.

La metodologia dell’allenamento veniva attraverso un percorso molto semplice alla cui base c’era la ripetitività del gesto tecnico, poco tempo veniva lasciato alla parola, giusto qualche chiarimento su come e cosa si esigeva, in effetti non c’era molta comunicazione.

Nei miei ricordi la palestra era un luogo molto chiuso, un luogo poco incline agli scambi e alle informazioni, c’era solo un gran senso della disciplina e vigeva una forte scala gerarchica con al vertice il Maestro e le cinture superiori.

Quando rientravo a casa alla fine degli allenamenti ero tutto indolenzito, la caviglia mi doleva fino a farmi rimpiangere quello che stavo facendo e mio padre brontolava dicendo che non era sport adatto a me; proprio lui, che da giovane faceva pugilato come si usava ai suoi tempi. A quei tempi il Karate non era conosciuto come oggi, però io lo sentivo importante per me, e poi c’era il Maestro! Come facevo a dirgli: è duro, smetto?.

Non sia mai! Non mi sono, quasi mai, tirato indietro da una sfida e comunque mi ero preso l’impegno di provare almeno per qualche mese. Tra l’altro questo era anche un modo per liberarmi dalla famiglia che mi voleva chiuso in un vaso di vetro, solo perché uno è nato un po’ “diverso”. Ebbene, se diverso dovevo essere, tanto valeva esserlo in tutto. Karate a tutti i costi e tutti i santi lunedì, mercoledì e venerdì dalle 17 alle 18 e in qualche occasione anche fino alle 19.

Ancora adesso quando penso a quei tempi il mio cuore ha un sussulto, erano anni di allenamento molto intenso e severo, non c’erano mezze misure, o restavi, o te ne andavi senza alcun rimpianto.

La palestra  per come la ricordo era un po’ piccola nelle dimensioni, quando si entrava avevi uno sgabuzzino che fungeva da segreteria, poi un piccolo corridoio che immetteva alle docce e al Dojo. Le docce ricordo erano un po’ basse, era tutto piastrellato in mosaico colore verde petrolio. Come ambiente era molto caldo si perché di veramente caldo c’era solo quello, le docce, di sicuro, un giorno si e uno no erano gelate.
Si entrava nel dojo in reverenziale silenzio, ad attenderci c’era sempre questo gigante neanche tanto buono, ma onesto, sincero e grande sia nell’aspetto che nell’animo. Il Maestro mi ha aiutato, ha fatto in modo che capissi i miei limiti che erano e sono tanti. Io ho un pessimo carattere e quando non capivo o non volevo capire una cosa il Maestro mi faceva ripetere e ripetere fino alla nausea una tecnica e qualche volta ci scappava anche una tecnica “ poco controllata”.

Alcune volte avevo la percezione che volesse provarmi, che volesse vedere se mollavo, se mi arrendevo. Se sono ancora qui a raccontarmi dopo 26 anni, un grosso merito lo devo anche a Bruno Demichelis. ( Questo il suo pensiero su di me dopo aver letto la tesi - Profilo del Maestro Bruno Demichelis)

Gli allenamenti erano abbastanza pieni di tensione e di spirito. Alla base c'erano sempre gli esercizi di riscaldamento precostituiti , se ben ricordo, da 1 minuto di saltelli, 20 flessioni sulle braccia  e ancora 20 flessioni sulle gambe, gli addominali non si contavano perché Bruno usava un metodo tutto suo e per spronarci diceva:” Addominali e aggiungeva vediamo chi smette prima” e così ti ritrovavi a non contare quanti ne facevi per non essere il primo a smettere, qualche volta si vinceva e qualche altra perdevi spudoratamente, forse per la digestione lenta. Poi si facevano una ventina di giri della palestra dopodiché ci si poteva allenare. L’allenamento era quasi sempre uguale: almeno una cinquantina di Oitsuki, poi le parate e contraccolpo e infine i calci. Se andava bene potevamo avere la soddisfazione del Gohon Kumite e del Sanbon Kumite, visto il nostro livello. In corso eravamo in diversi e di diverso grado , comunque tutte bianche ma con qualche striscia nera alla cintura. In quel tempo non si usava la cintura gialla e arancio. Poi facevamo Kata, quanti ne abbiamo fatti! ricordo una lezione fatta solo di heian Shodan e Nidan, una lezione estenuante ma alla fine tutti sapevamo eseguirli abbastanza bene. Inoltre il Maestro prediligeva il Kumite ma a quello si dedicava in special modo con le cinture superiori, per fortuna!

Il Maestro Demichelis era molto esigente nell’apprendimento del Kata sosteneva che il kata rappresenta il nostro patrimonio genetico, il nostro DNA. Demichelis ci chiedeva di comprendere bene la differenza tra Kihon e Kata nel senso che il Kata è Kumite con la mente contro un avversario o più avversari armati e pericolosi.
Poche volte la lezione si concludeva con gratificazioni, il Maestro era poco incline ad avere parole di elogio e così te ne tornavi a casa sperando di essere stato bravo ma senza saperlo veramente. Io dal canto mio ero sempre insoddisfatto delle mie performance ma sapevo in cuor mio che stavo migliorando se non altro sotto l’aspetto mentale. Dovevi stare attento alle spiegazioni, alla gestualità del Maestro e a quello che mostrava. Qualche volta sentivi chiamare il tuo nome, e come a scuola, ti veniva chiesto di mostrare quello che avevi capito.

Rarissime volte ho sentito il Maestro dire a qualcuno:“ Oggi hai fatto una buona lezione”.
Qualche volta succedeva anche che il Maestro si mischiasse agli allievi al momento del Kumite, capitava così che te lo trovavi davanti e andavi subito in paranoia, eri imbarazzato, impaurito da questo colosso, così se non facevi del tuo meglio ti trovavi a subire i suoi attacchi penetranti e se devo essere del tutto sincero succedeva anche che ti faceva male ogni tanto per verificare se eri a all’altezza del suo insegnamento. Il Maestro sosteneva che la difesa doveva essere piena, robusta, ed essere in grado quindi di scoraggiare un secondo attacco, entrava per bene con la sua tecnica prediligendo il maegeri e tu non potevi di certo contrastare la sua mole, la sua aggressività e la sua tecnica precisa e penetrante. Questo ci faceva capire che fuori della palestra non saresti mai riuscito a difenderti da un attacco vero. Erano delle gran “belle” lezioni un pò audaci forse ma ti davano una carica che te la portavi dentro per diverso tempo.

Era duro ma faceva per me, non sentivo molto la stanchezza, sentivo solo il mio corpo che si svegliava, si perché quando ti fa male qualche cosa o ti manca qualche cosa, vuol dire che quella parte di te c’è, che è presente, che è viva, ed io ero stremato ma felice.

E poi a casa o con gli amici a parlare di come ci si sentiva e quasi tutti avevano a che dire sui loro dolori addominali o gli ematomi sulle gambe, certamente il Karate era anche divertimento, allegria gioiosa dello stare assieme ad altri che avevano la tua stessa passione anche se eravamo sempre legati dalla disciplina, o al rispetto che il Maestro esigeva da tutti e a tutti i costi.

La disciplina per dire la verità non era così ferrea come la descrivo, ma per mia formazione mentale la interpretavo così.
Qualche anno dopo il Maestro accorgendosi che ero ancora cintura bianca senza neanche un Kyu mi chiese perché ogni volta che ci sono gli esami io non mi iscrivevo. Lui sapeva il perché ma voleva sentirselo dire. La verità era che non mi sentivo pronto per questo passo, e avevo veramente paura di fare brutta figura mi vergognavo un po’ anche perché la gamba non mi permetteva di rimanere in equilibrio se non per qualche istante, troppo poco per poter eseguire efficacemente (solo dal punto di vista didattico e non certo dell’efficacia che è tutt’altra cosa) sia Mawashigeri che Yokogeri Kekomi, sul Yokogeri Keage e Maegeri ero già più “ bravo”, ma questi altri due calci erano il mio incubo, quando calciavo le mie braccia se ne andavano per i fatti loro “ un pò come adesso”, la mia gamba di sostegno non mi permetteva di spingere con l’anca destra, e quando calciavo con la gamba sinistra non riuscivo, come adesso, a colpire con la parte esatta del piede.

Mi fece eseguire una trentina di yokogeri e mawashigeri dopodiché mi promosse al grado di cintura verde.

BrunoIn seguito mi sono allenato tre volte alla settimana con le cinture blu e marrone anche perché più della metà dei miei colleghi aveva mollato. Con loro c’era sempre da imparare, ho capito molto, ho compreso come ci si disinnamora del Karate come ci si appassiona al Karate, come si vive con il karate dentro e come lo si porta fuori dalla palestra, nella vita familiare e nei rapporti con gli altri.

Io penso che il Karate in Italia nei primi anni Settanta era una forma di avanguardia, forse perché c’era la necessità da parte dei Maestri di formare della gente a loro "pari" la cosiddetta “Vecchia Guardia”, sarà perché il modello di formazione Giapponese imponeva delle caratteristiche di allenamento poco consone alla nostra statura, sta di fatto però che in quell’epoca si sono formati i grandi del Karate Shotokan italiano, ed è grazie agli insegnamenti, non solo tecnici, di un giovane Maestro giapponese arrivato in Italia nel 1965 che l’Italia conquista il titolo mondiale a Tokyo nel 1976. Era il Maestro Hiroshi Shirai.

L’Allenamento di li a poco acquista una migliore qualità, è sempre duro ma si respira un’altra aria, siamo tutti felici del risultato del nostro Maestro.

Per quanto mi riguarda il karate di allora era molto duro e imponeva un tipo di allenamento molto rigido, ripetitivo, un po’ come oggi, ma più rigido sotto l’aspetto della disciplina e del rapporto con gli altri atleti. In palestra a quel tempo non si poteva tanto andare sul sottile. Se stavi attento, molto attento, tornavi a casa integro, altrimenti correvi il serio pericolo di vederti con il naso un po’ più grosso del normale Questo non mi spaventava, ciò che più mi spaventava erano due cose: avevo paura degli ashibarai e del problema di smettere.

Ho ceduto per un anno.
Si sa il tempo è prezioso, e una volta chiarite le mie intenzioni sono ritornato, con grande disappunto, ma con una certa felicità non espressa dal Maestro. L’avevo si deluso, ma il tempo fa capire l’importanza del sentirsi apprezzati per quello che si è. Questo è ciò che Bruno mi ha fatto capire più tardi. Ancora adesso quando lo ritrovo per le calli di Venezia lo saluto, come Maestro. Bruno Demichelis resta per me sempre un Maestro di karate.

Avendo perso un anno mi ritrovo ad essere allenato da un’altro Maestro. Incontro il Maestro L. Puricelli ed è la mia rovina totale, lo seguo ancora!
Con Lui l’allenamento prende subito un altra piega, è arrivato da poco a Venezia e forse non conosce molto bene l’ambiente ma è bravo, lavora il suo corpo come non ho mai visto fare a nessuno.

Ha una coordinazione impressionante. Sin dall’inizio la sua pazienza non ha limiti, con lui arrivo alla cintura blu.

Anche con Puricelli l’allenamento è duro saltelli, flessioni sulle gambe, non ha alcuna considerazione del mio stato fisico, non mi incita ad andare avanti come faceva Bruno per lui sono un allievo come gli altri e come gli altri devo eseguire in silenzio e imparare in fretta. Per Puricelli tutti gli allievi hanno delle potenzialità, l’importante è tirarle fuori a tempo debito.
La palestra aveva cambiato ubicazione. Adesso il CSKS si era spostato in Campo S.M. Formosa, la palestra è enorme e molto meglio organizzata, la sala di allenamento è a due stanze grandissime. Finalmente c’è la sala degli attrezzi, i Makiwara non si contano e quello che usa il Maestro è inamovibile. C’è una persona che si allena sempre al makiwara e mi insegna ad usarlo nel modo corretto, è Formenton, da lui imparo, o meglio, mi spiega come fare per migliorare i calci, qui trovo Cipriani e da lui imparo la forma del rispetto. Tanta gente, tante persone si sono fatte carico di aiutarmi, non so il motivo di questo, ma a tutti devo e voglio essere grato. Con il Maestro Puricelli gli allenamenti sono un po’ più equilibrati.
Negli anni seguenti il Karate conosce la fama e diventa, a mio dire un po’ commerciale, forse perché erano arrivati in Italia gli oramai famosi “films cinesi e giapponesi sulle arti marziali” che tanto hanno contribuito a far conoscere il Karate sotto l’aspetto violento dell’arte. Quanta fatica si farà in seguito per scrollarsi di dosso l’etichetta di Karate uguale Violenza!

Venezia è una città dove non ci sono tante attività, in palestra siamo in tanti e bene o male ci si conosce un po’ tutti. Il mio corso di cinture verdi, blu e marrone è affollatissimo, il Maestro segue tutti ma devo dire, che eravamo meno seguiti a livello personale. I “vecchi” , abituati ad un intervento personalizzato, risentono di questo e qualcuno si lamenta e lascia. Ritorneranno quasi tutti quando finalmente capiranno l'importanza del karate al di la del proprio ego.

Con il Maestro L. Puricelli l’allenamento si fa interessante, siamo passati a fare Kumite e allora l’applicabilità delle tecniche mi stimola ancor più ma devo mollare un'altra volta. Ho dei dolori alla colonna vertebrale perché la mia gamba sinistra è più corta di quattro centimetri e devo allungarla.

Nonostante la paura che questo comprometta quell’equilibrio che faticosamente avevo quasi conquistato mi sottopongo agli interventi richiesti, dureranno tre anni, passano in fretta e il desiderio di ritornare alla mia passione originale si fa improcrastinabile, nel frattempo il C.S.K.S. aveva chiuso i battenti e il Maestro aveva cessato la pratica del Karate.

Mi ritrovo così a ritrovare il mio Maestro in una palestra piccola ma con un odore di sudore che ancora oggi mi porto dentro e mi fa capire quanto ne dovrò ancora versare.

E’ il posto giusto e la persona giusta e anche il nome è interessante (Centro Sport e Cultura). Quante volte mi verrà chiesto se per cultura si intende cultura fisica e io rispondo sempre allo stesso modo “Non c’è solo quella, per nostra fortuna, c’è anche la Cultura con la C maiuscola”. Allora mi fermo un po’ per seguire la lezione e con mia grande sorpresa vedo tanti amici dei tempi passati in karategi.

Il Karate è diventato ancora più tecnico, il Maestro ha fatto un salto di qualità e così i suoi allievi. Io ritrovo Luciano, con il suo incomparabile modo mi permette di tornare ad allenarmi ogni lunedì e giovedì dalle 22 alle 23 di sera, un disastro, quando arrivo a casa sono tutti a letto.

La prima sera di allenamento mia figlia Beatrice, che non mi vede a casa per l’ora di cena, chiede alla mamma: “adesso cosa facciamo, senza il papà siamo sole” (che tenerezza, quando ne parlo), ma che gioia quando sento che la mia famiglia comprende che, attraverso questa magnifica arte, io mi realizzo e sono, cosa più importante, me stesso. Non appartengono al mondo dei frustrati e questo è un gran pregio che conta in una famiglia, perché il rapporto è sereno, perché amo quello che faccio e non rimpiango il tempo che dedico alle cose che più amo. Quanto ritorno sono felice, non sono represso perché qualcuno o qualcosa è andato storto, nell’allenamento si può avere un senso di frustrazione perché non si riesce a superare il proprio limite ma nello stesso tempo è liberatorio.

Qualcuno ha detto che la tecnica è solo tecnica ma io dissento in parte da ciò, la tecnica è altro, noi non siamo robot, siamo esseri umani pronti ad essere esaminati ed ad esaminare. La tecnica, se fatta con il cuore, può senz’altro migliorarti come persona. Il nostro corpo è limitato da uno spazio ma cuore e mente non si possono contenere se non nei limiti che le persone stesse si impongono. La tecnica è si un movimento prefissato ma è anche mente e cuore, basta osservare da vicino i grandi Maestri.

In palestra ci si trasforma un po’. In allenamento, siamo noi stessi, siamo e esploriamo la nostra vera natura, il nostro modesto mondo si trasforma in una totalità di sensazioni e di mondi non visitati fino ad allora.
C’è un momento esatto in cui si intuisce ma ancora non si capisce questo, è la molla che ti fa continuare a provare e riprovare. In questo Puricelli è grande, ti aiuta a comprendere le tue capacità e dove possibile superarle attraverso l’allenamento e attraverso l’autodisciplina che ti dimostra quotidianamente, giorno dopo giorno.

Questo io respiro in palestra e la figura del Maestro aiuta in questo. Io imparo da lui, cerco di emularlo, ma è necessario fare attenzione ad essere sempre se stessi.

Il compito auto - formativo passa, per forza di cose, attraverso un bravo Maestro che sappia ricavare dall’allievo/persona che ha di fronte il meglio delle sue capacità.

L’allenamento con il Maestro L. Puricelli è diverso dagli standard. Nel frattempo la logica dell’allenamento e dell’insegnamento si è un po’, solo un po’, evoluta e modificata. Con L. Puricelli il metodo propedeutico è diverso, l’allenamento è ancora più specifico, meno “cruento”, non meno faticoso, ma più specifico.
Luciano esige, corregge, spiega il modo corretto ma lascia, e questa è la sua dote, che ognuno cresca con i suoi tempi, e i miei sono molto lunghi, sono sempre un po’ restio a fare certe cose, ho come un blocco mentale che non mi permette di dare il massimo di me stesso, c’è sempre qualche cosa che si interpone tra me e la tecnica, tra me e il mio modo di fare. E’ il panico. E’ la sensazione di non farcela, a fare questa cosa che mi piace, a farmi paura.

Comprendo che l’operazione ha in parte distrutto quello sprezzo del pericolo che prima, forse per l’età o forse per le scarse responsabilità accettavo meglio.

Ora sono marito, padre, e il farmi male pesa, quasi mi ossessiona, ma continuo sperando che passi.

Una sera durante un allenamento un compagno esegue un ashibarai proprio lì dove più la mia paura si concentrava, la gamba, vengo colpito molto forte e la mia gamba si gonfia in un modo spropositato, la paura che sia rotta produce il mio primo vero Kiai. Cado, mi osservo, Luciano non dice nulla, osserva e dice semplicemente: “non è rotta metti ghiaccio”, chiedo di potermi assentare per andare al bagno, viene concesso, mi viene la nausea ma arrivo e osservo l’acqua fredda che rende la mia gamba bluastra, ma non è rotta, (non sarei arrivato al bagno e Luciano sarebbe intervenuto, FORSE). Con gran sollievo scopro che la gamba è lì, mi fa male, pulsa ma fa ancora parte di me. In realtà tengo moltissimo a questa maledetta gamba che ogni tanto mi fa tribolare e ricordare soprattutto cose spiacevoli, ma quella sera era li ed era tutta intera.

Torno dentro, sono molto arrabbiato e, come una animale ferito, toccato nel proprio intimo da uno che non ha avuto rispetto della mia debolezza e perché no del mio handicap. Non dico niente mi devo trattenere. Ancor oggi ci alleniamo insieme e quando posso lo ringrazio di avermi considerato degno del suo ashibarai. Questa esperienza mi ha fatto capire molte cose: la prima è che quando si teme una cosa prima o dopo capita di peggio, la seconda che non si devono mai e poi mai sottovalutare le proprie capacità e sperare che quando uno ha un problema lo compatiscano e lascino perdere la loro occasione di portare una tecnica efficace.

Qualche anno dopo l’esame da cintura marrone, esame durissimo, il Maestro chiede molto, ma quando mi consegna il modello con l’esito favorevole sono felice e molto soddisfatto. Credo di essere arrivato al massimo delle mie possibilità. Siamo nel 1983.

Cambio orario si passa dalle 21 alle 22 Beatrice ha capito e comunque non è più sola, ha un fratellino, Enrico.

I compagni nel frattempo sono cambiati, più adulti, più consapevoli della qualità dell’insegnamento, ma qualcosa cambia ancora, ho detto prima che ci si può anche disinnamorare del Karate. Qualcuno se ne va ma io, consapevole delle mie possibilità, voglio la Cintura Nera e dentro di me si rafforza la convinzione che posso fare e dare di più a me stesso alla palestra e al mio Maestro.

Sono gli anni di maggiore impegno per la mia mente e per il mio corpo. Nonostante il lavoro, la famiglia e le ovvie preoccupazioni di tutti i giorni, la mente è sempre con il Karate. Mi impongo l’allenamento anche quando raggiungere la palestra diventa difficile (io abito in un isola neanche tanto servita dai mezzi pubblici) ma, quando entro in palestra, sentendo l’odore di fatica dimentico tutte le difficoltà.
L’allenamento da marrone ritorna ad essere più duro, ma sempre più interessante e si comincia anche a frequentare qualche stages, faccio la conoscenza del Maestro Shirai e così capisco come il Maestro Shirai abbia contribuito a portare il Karate Italiano e i suoi tecnici ai livelli attuali.
Il Maestro Shirai è velocissimo, esegue tecniche con grande maestria ma il mio livello tecnico mi impedisce di capire fino in fondo tutto quello che ci propone, ma gli stage sono importanti e io da allora, possibilità o no ne perdo pochissimi. Sono sempre in prima fila, penso da sempre che essere in prima fila possa aiutarmi a meglio comprendere, meglio vedere e gustare quello che viene proposto e poi non ultimo il fatto che essere li, in prima fila, voglia dire: “ Ecco, sono qui, guardami”. Il Maestro guarda, osserva e si rende conto di cosa fai, come lo fai e cosa più importante se migliori ogni volta che ti vede. Forse la mia è presunzione, ma io penso così.

Gli stage mi danno moltissimo e in palestra questo si nota, la vicinanza con il Maestro Puricelli durante i vari viaggi mi da modo di dialogare e questo mi aiuta a capire e mi stimola a studiare in modo approfondito la tecnica, il Kata e il loro lato oscuro.

Passano altri due anni, muore mio padre nel Maggio 1985, mia madre è distrutta, io vivo in una sorta di non tempo. Le aumentate responsabilità , sono figlio unico, mi fanno un po’ paura, dimentico per qualche istante il Karate e la palestra, ma tutti mi sono vicini in questo importante momento formativo della mia vita. Quanto ho pianto e adesso che sto scrivendo queste stupidaggini i miei occhi si inumidiscono a quel ricordo. Quel fatto ha dato una spinta basilare alla mia formazione anche perché ho capito che come essere umani abbiamo pochi anni a disposizione per realizzare quel poco che vogliamo ottenere da noi stessi e l’unico modo per non morire è trasmettere, lasciare una traccia, dare qualcosa di se stessi agli altri: qualcosa che continui a vivere anche dopo.

Mi sto preparando per la cintura nera, mi sembra impossibile, io proprio io cintura nera, ma supero l’esame, chiedo al Maestro Marangoni un giudizio, mi fa ancora una volta capire che non devo portare la forza sulle spalle ma sul hara come mi dice sempre Luciano. Sono molto soddisfatto e in palestra le cose migliorano per me, ma non dimentico che se sono quello che sono lo devo al mio Maestro e ai miei colleghi che mi hanno aiutato in questo.

Devo essere sincero fino in fondo, devo molto a molte persone e così il primo giugno 1986 sono cintura nera.

Gli allenamenti nel frattempo mi aiutano a capire ancora di più che questa è la mia strada. Da cintura nera devo allenarmi in modo diverso e il Maestro è chiaro in questo e, facendo l’esempio dello scalatore lo fa capire in modo profondo. Prendo coscienza di questo e mantengo l’impegno con me stesso di non mollare perché “sono arrivato”. Per la verità secondo me devo ancora partire, ma questa cintura nera mi gratifica, mi piace e mi esalta. Devo stare attento a questa sensazione devo controllarmi, posso sempre scivolare dalla “vetta” sulla quale sono arrivato e dalla quale mi appresto a ripartire.

Mi rendo conto che devo fare ancora più attenzione, allenarmi di più e che il karate dura tutta la vita e forse va oltre la vita di una persona, devo dare l’esempio perché mi sto preparando per il secondo dan e Puricelli mi dice che non è semplice, che non è una passeggiata e che me lo devo meritare forse più degli altri aggiunge, e aggiungo io. Beh ci provo.
Seguo le lezioni, non manco quasi mai ad un allenamento, un grosso aiuto lo traggo proprio da questa mia assiduità agli allenamenti ed agli stages che, sempre più mi vedono partecipe. Frequento il corso regionale del Maestro Shirai, imparo, lui impara a conoscermi, mi valuta, e mi aiuta.

In palestra il Maestro si fa più esigente, vuole e mi sprona a dare di più.
Il kihon diventa il mio cruccio ma attraverso questo tipo di allenamento miglioro. Sento che lo spirito si rafforza ed è l’autodisciplina a far ciò. Coltivare lo spirito è difficile ma non impossibile ma si deve essere sinceri con se stessi, chiedersi:” hai dato il massimo?” e questo lo senti dentro.

Il 2 ottobre 1988 sono secondo Dan, e mi viene l’idea che forse io debba andare avanti farò l’istruttore.
Inizio inoltre a viaggiare con il mio Maestro. Andiamo agli stages e mi porta ad uno stage organizzato dalla WKSA del Maestro Kase. E’ sempre più difficile stargli dietro ma quanta soddisfazione lavorare con lui.

Il Maestro Kase trasmette il suo sapere attraverso la tecnica e attraverso i suoi occhi che sono il massimo dell’espressività. Il suo insegnamento si fonda su un tipo di trasmissione da cuore a cuore, da mente a mente. Parla poco il Maestro Kase, ma quel poco che dice fa capire l’importanza del Ki, del Kime, del Cuore. Continuo a pormi la domanda: “ è il Karateka che fa il Karate o il Karate che fa il Karateka?”. La risposta è quasi sempre la stessa:” il Karate è si tecnica ma anche cuore, tanto cuore e tanta passione”. Quando il Maestro Kase parla del superamento della tecnica forse si riferisce proprio a questo.

E io continuo la mia formazione.
Espongo al mio Maestro l'intenzione di insegnare e subito dice di si. Non sarà una passeggiata aggiunge.

Quando tiro fuori gli appunti di quei giorni scopro sempre cose che, forse, avevo dimenticato. Il corso non è molto duro come allenamento, ma viene richiesto il massimo impegno e la massima frequenza, I Maestri ci fanno capire l’importanza di una tecnica pulita, abbiamo come docenti il Maestro Marangoni, Michielan, Zannin, Boffelli e lo stesso Puricelli.

L’impegno è totale e incondizionato, noto la preparazione non solo tecnica degli insegnanti e da loro intuisco e capisco in seguito la loro impostazione mentale, il giusto atteggiamento, di come si debba migliorare in solitudine dedicando la maggior parte del tempo alla propria formazione, al proprio auto miglioramento. Ci provo ma è dura allenarsi da solo, senza una guida, senza un tempo specifico, è difficile capire i propri difetti e i propri pregi senza una o più persone con cui confrontarsi, comunque sto provando ancora una volta a capire i miei limiti e le mie capacità.

Luciano mi invita a seguire come assistente le lezioni di un altro allievo. Scopro così che gli allievi accettano di buon grado la mia presenza e anche il mio modo di insegnare. Capisco i motivi, adesso dopo sei anni, comprendo che sono intuitivo, creativo e sprono ma non frustro le persone. Forse vedendo come io eseguivo le tecniche gli allievi si rincuoravano e capivano che anche un istruttore può sbagliare ma fa del suo meglio per migliorare. Non nascondo ai miei studenti il fatto che il mio è ancora un percorso lungo prima di arrivare alla “perfezione tecnica” che viene richiesta, ma sottolineo che se io riesco a fare un Yokogeri Kekomi possono farlo altrettanto bene loro.

Quando si insegna si rischia di avvalorare la propria tecnicità invece si  deve valutare e comprendere la fatica degli altri. Insegnare ti rende più vulnerabile, devi sempre stare in guardia ed è stato questo a farmi comprendere che l’orizzonte è molto vasto.

Mi sono avvicinato all’insegnamento con grande determinazione ma anche con paure e timori di far male il mio lavoro. Con grande umiltà svolgo il ruolo che mi sono “forse” imposto.

Le lezioni si susseguono giorno dopo giorno sempre sotto l’occhio attento e vigile del Maestro che mi consiglia, mi verifica negli allenamenti e mi sollecita a fare meglio e a studiare di più.

Io eseguo non solo perché me lo dice lui, ma perché è giusto così.

Non puoi insegnare falsità o menzogne, non puoi pensare di educare le persone se prima non educhi te stesso alla disciplina, alla tecnica, alla vita e ai rapporti con gli altri.
Non puoi barare quando insegni, vieni sempre scoperto ed allora è brutto, dai una immagine del Karate, della Palestra, di quelli che ti hanno aiutato, sbagliata e falsa ed allora la qualità dell’insegnamento scade.

Non sono un tecnico che porta gli allievi/persone all’esaltazione, anzi continuo a pensare che il Karate, attraverso la tecnica e, con un giusto modo di porsi, debba migliorare le persone e migliorando le persone si modificherà la società, la si renderà migliore. Verrà così svolto anche quel ruolo sociale che ognuno di noi dovrebbe, con i propri modesti mezzi svolgere. Ed è così che, non senza difficoltà, nell’agosto 1990 mi viene certificato il grado di Istruttore.

Il ruolo di Istruttore mi impone anche nuove responsabilità non solo nell’insegnamento ma anche nell’allenamento, trascinare il gruppo non è cosa facile, svolgere il ruolo, se pur inconscio di Sempai, non e semplice, mi organizzo e mi impongo un comportamento che è già in parte mio.

STORIA DI VITA E INSEGNAMENTO


La prima lezione, il primo saluto l’ho già ricevuto ma ora ho ufficialmente il primo corso. I primi allievi che ti chiamano Sempai, "Sensei", mi aiutano anche se già molti li conosco. Trovarmi solo di fronte a queste persone, mi ha fatto vivere un momento di panico da non essere completamente in me quando ho detto Yoi e ho dato i primi comandi a quella che sarebbe stata la loro lezione "più dura" . Non è stato un disastro ma una mezza vittoria. Erano esausti, ma nel sentire le loro voci e i loro commenti nello spogliatoio il mio cuore si è riempito di gioia. Quando sono ritornato a casa ero talmente elettrizzato dall’esperienza che ho fatto fatica ad addormentarmi.

Alla lezione successiva ero meno teso, più rilassato mi sentivo già più a mio agio, la lezione si è svolta “normalmente”. Poi quando sono riprese le iscrizioni ho avuto diversi allievi e ne sono stato felice. Il Maestro Puricelli è soddisfatto ma io ancora oggi mi chiedo il motivo del successo, un allievo tra una pizza e l’altra mi da qualche risposta ai perché: “ godi la nostra stima perché sei te stesso quando insegni, e se dobbiamo essere sinceri sei bravo” è la prima volta che qualcuno del mondo del Karate mi dice che sono bravo. Ma la cosa che più mi fa felice è quel “sei te stesso” da allora sono un Istruttore.

Il rendere partecipe la gente, il formare persone migliori, il capirle e considerarle, non solo per la loro abilità tecnica, questo rende una persona migliore.

Si, il Karate continua ad aiutarmi, a migliorarmi, a essere me stesso per la quasi totalità del tempo che trascorro fuori dalla palestra. In famiglia noto un grande miglioramento generale, la qualità del mio tempo diventa migliore e ancora più serena è l’atmosfera che si respira e che mi auguro duri tutta la vita.

Torniamo al Karate. Il mio metodo di insegnamento lo devo verificare sul campo lezione dopo lezione, scopro con dolore che l’esperienza dell’insegnamento, malgrado abbia un Maestro come specchio, te la costruisci sulle spalle dei tuoi allievi che ancora non comprendono perché gli fai fare un’ora di oitsuki o un ora di kata.

Cerco, con il passare del tempo, di personalizzare e pianificare l'insegnamento che fino a quel momento avevo fatto ma che non avevo mai razionalizzato. In questo caso la carta vincente è la verifica su se stessi che può farti capire molte cose.

Quando inizi un corso di principianti non devi chiedere la luna, devi capire e interpretare i messaggi che ti vengono mandati, devi decifrare il corpo dell’altro, lo sguardo, la voce, l’atteggiamento con il quale si accingono a provare per la prima volta qualche cosa di nuovo.

Ciò che prediligo è far comprendere per prima cosa che cosa è il Karate Do “ Un arte di autodifesa” e come tale deve essere concepito come rafforzamento del proprio corpo e della propria mente, con l’allenamento costante. In effetti sono del parere che nelle arti marziali non serve avere un corpo perfetto per ottenere risultati soddisfacenti ma bensì una costanza notevole.

Molte delle mie lezioni con i principianti si basano sull’atteggiamento mentale da assumere durante l’allenamento, sulla ripetizione del gesto e le sue forme, pugni, calci, parate che si basano sulla dinamica del movimento con gli spostamenti adeguati all’azione di risposta all’attacco o all’attacco in sé, sulla coordinazione che deve essere via via migliorata. Credo che in questo modo si possa portare l’allievo ad interiorizzare e far sua una tecnica, certo ci sono delle difficoltà in questo ma sono sempre superabili con la tenacia e la costanza. In effetti si è liberi di pensare che il 70% del livello di un allievo dipende dal suo impegno, e solamente il 30% dalle sue doti.

Per il Kata vale quanto detto in precedenza: atteggiamento mentale, comprensione delle tecniche e degli spostamenti, relazione tra le tecniche e la loro applicazione, il tempo del kata. Quando qualche allievo mi chiede che cos’è il kata mi tornano in mente le mie di domande, la risposta però e sempre quella: ”è il patrimonio genetico del karate, il nostro DNA.”
Spiego loro che solo attraverso la comprensione del kata noi possiamo immaginare un combattimento, in effetti gli antichi hanno volutamente nascosto nel kata tutta lo loro arte di combattimento, il kata non è una danza è un combattimento e gli allievi devono capire che questa è la linea di partenza del karate d’oggi. Do molto spazio nelle mie lezioni al kata, i bambini ad esempio ne sono attratti, impegnandosi moltissimo in questo.

Nel Kumite, tutti si dimostrano moto interessati a questa parte del karate, fondamentale per un arte di autodifesa, ma faccio comprendere loro che il karate non è combattimento inteso nel senso di procurare ferite o la morte dell’avversario ma inteso come autodisciplina come discernimento  tra istinto di conservazione e giusto equilibrio, ripeto sempre loro che quando il Maestro Funakoshi diceva :” Karate ni sente nashi” si riferiva al fatto che nel karate non c’è vantaggio ad attaccare per primi ma anche che, secondo me, non ci si deve mai trovare nella condizione di......

Tutto questo deve passare per forza di cose attraverso metodologie semplici e di facile comprensione, gli esempi nei primi momenti aiutano molto basta cercarli e adattarli alla situazione molte volte però vale l’esatto contrario mostrare una tecnica e verificarla all’istante può aprire la mente è la cultura del fare che conta nel Karate in effetti si dovrà far capire che il fine del karate non è sempre vincere ma l’idea di non perdere deve essere sempre presente come la ricerca del proprio perfezionamento.

Ritornando con i piedi per terra l’insegnamento della posizione è basilare. In effetti nessuna tecnica può essere efficace se manca la posizione. Si deve far comprendere all’allievo che il Karate si pratica quasi sempre in piedi, non deve essere confuso con la lotta, il Karate permette l’uso dei pugni e dei calci e pertanto una posizione forte è la base per portare tecniche forti, veloci ed efficaci.

La posizione deve inoltre essere stabile e pertanto l’allievo dovrà comprendere che per essere stabile la posizione dovrà avere una base larga. Potrebbe sembrare semplice far capire queste poche cose, ma ci vuole preparazione, esperienza e tanta pazienza.

Un esercizio che mi serve per far comprendere questa cosa sta’ nel far camminare l’allievo su un manico di scopa e poi su una tavola molto larga e
comoda in questo modo capisce l’importanza di una base larga. Ci sono diversi modi di stare in piedi nel karate. La più naturale riguarda la posizione “Shizen-tai”. In questa l’allievo non ha nessuna difficoltà  per applicarla in quanto è una posizione naturale. Il “Zenkutsudachi“ è già di più difficile applicazione. In effetti il principiante ha delle difficoltà a padroneggiarla in quanto non la sente naturale. Insisto molto nel dire che devono sentirla comoda e  trovarsi a proprio agio nello zenkutsudachi perché dovranno farlo per sempre, fintanto che faranno karate, e pertanto è meglio che la imparino subito. Per allenare la posizione a puntello si deve far comprendere che il peso deve essere distribuito principalmente sulla gamba anteriore ( 60%) senza sottovalutare la spinta della gamba posteriore (40%) , mi servo sempre di un bastone per questo esercizio facendo appoggiare il ginocchio anteriore dell’allievo al bastone che avrà come base la base dell’alluce del piede anteriore in questo modo faccio comprendere la posizione del ginocchio e l’importanza della muscolatura necessaria per tenere il peso della posizione che deve essere leggermente spostata in avanti.

Ci sono poi gli spostamenti in zenkutsudachi e per questi faccio eseguire degli spostamenti come se camminassero sulle rotaie. Facendo portare prima il peso su una gamba e posi sull’altra quindi riaprire la posizione, che non dovrà superare la larghezza dei fianchi, il tutto deve essere eseguito senza alzare la posizione e mantenendo le anche alla stessa altezza e i talloni appoggiati a terra. In questa posizione inizio di solito a far capire quali sono le fasi per eseguire una tecnica “efficace” la rotazione delle anche che dovranno essere aperte nella parata e chiuse nell’attacco.

Per quanto riguarda il “Kokutsudachi” la procedura è la stessa solo che l’allievo in questo caso deve comprendere che si tratta di una posizione semi frontale e che il peso in questo caso poggia principalmente sulla gamba posteriore e che i talloni devono mantenere la stessa linea;
L’uso di pugni e calci nel karate è implicito e pertanto chi inizia a praticare si aspetta l’insegnamento di tecniche che investono queste parti del corpo. Al principiante faccio sempre presente che in tutte le tecniche di karate sia di braccia o di gamba c’è la tecnica e il suo opposto “Hikite”. L’allievo deve comprendere che quello che va deve ritornare e che sempre al momento dell’impatto il corpo deve essere totalmente contratto. Contrazione e decontrazione sono aspetti che si devono chiarire fin dall’inizio altrimenti l’allievo può pensare che il corpo deve essere sempre contratto durante la tecnica. Questo è un aspetto che non si deve sottovalutare nell’insegnamento, essere chiari è un dovere per tutti. Far strisciare l’avambraccio e il gomito lungo il  karategi può aiutare a comprendere che il gomito non deve uscire da una linea diretta al bersaglio e in questo aiuta la rotazione del pugno che dovrà essere eseguita all’ultimo istante, se il pugno ruota prima dell’impatto il gomito uscirà dalla traiettoria ed allora la tecnica di pugno sarà debole.

Per l'hikite basta far colpire all’allievo qualche cosa dietro il suo fianco in questo modo potrà iniziare a capire che nel karate si usano anche i gomiti. Rimane comunque punto fermo che la maggior parte delle tecniche di braccio usano una traiettoria diretta verso il bersaglio.
Per i calci, superato il primo momento di imbarazzo, faccio presente le mie difficoltà a mostrare i calci nella loro esecuzione rallentata e pertanto per far questo trovo un appoggio. Per i calci vale quanto detto per le tecniche di gamba con la sola differenza che nel principiante le gambe sono un altra storia, non si è abituati a tirare calci se non ad un pallone, portare il ginocchio al petto è già un impresa, far scattare il ginocchio per il Maegeri è un disastro. Importante è farli sentire sicuri. Facendoli appoggiare al muro od a un compagno si ha già un primo risultato. Di solito faccio così e preferisco far lavorare la persona partendo dalle sue capacità. Individuando l’allievo che esegue bene una tecnica lo si può proporre agli altri in modo da sviluppare anche una sana competizione fra allievi.

Rimane comunque cardine primario la ripetizione del gesto il più corretto possibile tollerando l’errore e correggendolo gradatamente senza farlo pesare all’allievo che dovrà così trovare sicurezza nell’esecuzione della tecnica e imparare dai propri errori.
Qualche volta i miei allievi dicono che allenarsi con me è duro e anch’io penso abbiano ragione, ma non posso rinnegare ne dimenticare il mio percorso formativo.
Devo inoltre dire che molto mi è stato dato dal mio Maestro. La metodologia del Maestro è abbastanza complessa e ancora adesso mi stupisco di come riesca a mettere assieme le parti del programma che ci viene proposto. Spessissimo faccio dei paragoni fra il mio modo di insegnare e il suo, scopro che siamo diversi, ma è necessario tendere ad essere uniti nella diversità.

Con Puricelli non si riesce subito a capire lo scopo, anche se lo enuncia in diversi modi la comprensione o forse l'applicazione di quello che chiede è spesso difficile. Ci si scontra sempre con la propria mente, il proprio corpo e la propria concentrazione. Puricelli chiede tacitamente una fatica "scientifica" e forse adesso riesco a capire un po quello che intende: sentire che il proprio corpo riesce a permettere che l'energia si manifesti attraverso la tecnica.

La sua metodologia d'insegnamento è semplice e complessa nello stesso modo perché molto raffinata. La conferma deriva dal fatto che, anche se ci viene chiesto di eseguire una "tecnica semplice", nella maggior parte delle volte non si riesce ad avere quella precisa sensazione di aver fatto il possibile per renderla efficace.
Nella semplicità del gesto c'è tutto il sapere del Maestro. Un sapere in costante evoluzione in costante ricerca di qualcosa di estremamente sintetico e lucido.
Il mio Maestro non pensa solo alla tecnica, per lui l'importante è che i suoi allievi crescano in modo sano, che si impossessino delle chiavi di lettura sia della tecnica che della vita, dei rapporti con la società e con gli altri. Non basta il solo gesto tecnico devi anche dare delle risposte il più esaurienti possibili ed allora ti devi informare e interiorizzare ancora di più le tue conoscenze.

La tecnica che esprimo non è poi tanto scarsa come credevo, mi sento bravo forse per la prima volta. Questo mi fa bene e mi sprona sempre di più ad andare avanti e Luciano mi aiuta come sempre a capire, capire cosa devo fare, come devo insegnare e cosa devo insegnare. Oramai sono 22 anni che stiamo assieme e anche con lui il rapporto si è trasformato, siamo diventati amici da parte mia, lui è sempre enigmatico con me, dice e non dice. Come mio padre non ti dice mai ti voglio bene oppure sei bravo, ma lo so, lo sento cosa pensa di me. L’intesa c’è, non è dichiarata, ma c’è e la vivo serenamente.

Un amico d’infanzia che mi conosce molto bene dice che mi vede sereno, equilibrato. E’ vero sto bene perché sento che sto facendo cose importanti forse le più importanti della mia vita, sto insegnando ai miei figli, ai miei allievi, ai miei amici come diventare delle persone migliori attraverso l’esempio di vita e attraverso la tecnica. Certo il Karate rende migliori ma questo forse è intrinseco ad ogni attività sportiva, ma l’Arte della mano vuota del Sud è una gran cosa che investe lo spirito e lo spirito è infinito.

Mi sono impossessato abbastanza bene dell'insegnamento. Le difficoltà più grosse le ho avute quando in palestra si sono presentati i bambini, fino ad allora avevo insegnato solo ad adolescenti e adulti ma non avevo mai avuto un corso di bambini. Li ho tuttora, io e Puricelli ci facciamo sempre delle risate quando gli dico che non ce la faccio più.
Ho poca pazienza con i bambini, sono capricciosi, vogliono sempre giocare fanno, passatemi il termine, un casino bestiale e mi sembra che l’immagine della palestra venga compromessa ma non è proprio così alla fine. Con i bambini devi modificare completamente il tuo modo di agire e di fare karate. Il Karate non è costrizione non è plagio, il Karate è liberazione da molti stereotipi che questi giovanissimi hanno attraverso i moderni mezzi di comunicazione, ed allora devi per forza inventare, applaudire e giocare con loro e a questo punto il karate diventa gioco e complicità del fare.

Gioco di squadra, gioco individuale non devo permettermi di guardarli dal mio livello ma devo portarmi al loro e così qualche volta ridivento bambino giocando e qualche altra volta, raccontando e parlando dei miei tempi, come facevano i nonni con i loro nipoti, giochi che si usavano allora, qualcuno non sa neanche che cosa é una fionda, paragone che uso per far capire come si prepara una tecnica efficace. Con umiltà tento di farmi capire, è difficile, alle volte devi anche essere duro e questo diventa duro anche per me anche perché con due figli da educare devo sempre scoprire il modo per poterli seguire al meglio. Come per l’aquilone, talvolta si deve tirare il filo, talvolta lo si deve allentare. Se lo si tira troppo, o troppo poco, l’aquilone cade e non è quello che desidero, loro vogliono volare. Devono diventare grandi e prepararsi positivamente alla vita.
Con i bambini ho imparato la pazienza, sono bravi e glielo dico ed allora tutti in coro mi invitano a osservarli: “ Maestro così va bene? Sono bravo? “ a quel punto dici  loro siete bravissimi anche se non è proprio la verità per tutti. Sono bravi nello sperimentare e nel provarsi. Sempre con i bambini riesco a capire meglio l’autocontrollo. Ce ne vuole tanto soprattutto con i genitori: ” il mio non impara, a scuola è un disastro non ascolta” e io dal canto mio ribadisco che forse a scuola non si impegna abbastanza o non viene sufficientemente riconosciuto, i bambini al giorno d’oggi vogliono qualità in quello che fanno e non riconoscendola non si impegnano, vogliono stimoli che non siano i soliti. I bambini vogliono vivere ed essere partecipi alle cose. La società sembra faccia molto per accontentarli ma in realtà falsa il senso vero delle cose, non si dialoga più tanto, c’è sempre la necessità da parte dei genitori di delegare altri all’educazione, alla comprensione, all’insegnamento, non c’è più tempo da dedicare a questi bimbi che diventeranno gli adolescenti di domani e dovranno essere forti per non correre il rischio di imboccare strade sbagliate. Un giorno leggendo un libro sul karate ho sottolineato questa citazione: “Il Generale Wellington aveva detto a Napoleone I° “ La battaglia di oggi può essere vinta sul terreno di gioco della scuola del nostro paese”. Questa frase deve essere compresa come una massima importante sugli aspetti dell’insegnamento ai bambini e non solo. Nell’educarli al futuro si deve trovare un equilibrio tra severità e gentilezza senza mai permettersi il lusso di non essere severi con se stessi e se per caso si commettono, come è logico succeda, degli errori si deve chiedere scusa e come dice ultimamente il Maestro Shirai “ pago pegno” mostrando un kata o una tecnica. E’ giusto.

I ragazzi ora sono più grandi e migliorano, hanno preso coscienza delle loro qualità e capacità, mi ascoltano di più ed eseguono le tecniche come richiesto. Certo c’è sempre il gioco ma, adesso si lavora di più, senza mai dimenticare che sono bambini pertanto con l’attenzione che il caso merita. Devo fare attenzione e dare come sempre il meglio di me. Ho scoperto che con i bambini non puoi sempre preordinare l’allenamento e qualche volta sei costretto ad improvvisare qualche cosa di diverso.

La mia funzione di insegnante passa anche sotto il punto di vista dei rapporti diretti con gli allievi. Quando non vedo un allievo telefono per capire, se sta male, se deve studiare o se c’è qualche problema.

Una brutta esperienza l’ho avuta con un allievo , uno dei primi che ha mollato mi sono sentito morire dentro, un mucchio di dubbi mi si sono affacciati alla mente. E’ bruttissimo perdere un allievo, lo ho scoperto sulla mia pelle e penso a quei Maestri che si vedono traditi così come mi sono sentito io.
Mi viene in mente il mio primo Maestro quando non mi ha più visto avrà avuto anche lui questa sensazione? Sono dispiaciuto ma anche questo aiuta a capirsi meglio. Altri hanno mollato e ogni volta ci sto male, non mi ci voglio abituare.

Puricelli una volta ha detto che quando riesci a far capire ad una persona che quello che sta facendo non gli piace, devi essere felice, perché hai aiutato una persona, un allievo, a capire se stesso e quello che vuole fare, io mi ci devo ancora abituare e penso di avere una ulteriore responsabilità in questo. La “formazione” continua.

Nel Agosto del 1990 divento 3° Dan
. Anche se mi espongo alla valutazione adesso mi sembra che niente e nessuno possa fermarmi, mi sento invulnerabile, ma devo stare attento molto attento a questo senso di onnipotenza che sta dentro di me, devo ancora lavorare per non permettere al mio ego di prendere il sopravvento, faticosamente lo controllo e allora mi scopro umile.

L’allenamento con il mio Maestro mi fa capire questo, e ogni volta che metto il Karategi mi rimetto in discussione, scopro che, si sono migliorato, ma che la strada da fare è ancora lunga, difficile e piena di pericoli.

Il Karate è un combattimento dove è necessario esercitarsi con coraggio ma anche con perseveranza, umiltà e sincerità. In sintesi il Dojo Kun ha ancora molto da trasmettere e da insegnare a tutti. Non ricordo chi fosse ma qualcuno ha scritto: ”L’uomo comune si interessa al profitto, l’uomo nobile al dovere”. Condivido in toto queste parole anche se non è facile essere sempre umili, sinceri e coraggiosi, anche se il perseverare comporta grossi sacrifici che spesso sono anche i sacrifici di altre persone.

L’insegnamento per me è diventato importante e sento la necessità di ricevere la certificazione dell’essere Maestro ma mi pongo sempre il dubbio, sarò all’altezza che questo comporta? Certo, il mio non è stato un percorso facile ed è anche per questo che voglio provare. Voglio, ancora una volta, sperimentare su me stesso se sono all’altezza.

Le tecniche  e  l’allenamento nel Karate-Do:

Nel parlare d’allenamento nel karate si deve, per correttezza, chiarire di che cosa si vuol parlare. In effetti, vediamo che nel karate si sta vivendo una vera e propria dicotomia tra diversi aspetti:

1.Moderno;
2.Sportivo;
3.Tradizionale;
4.Sport da combattimento.

In questo caso le tecniche qui trattate riguarderanno esclusivamente il Karate Tradizionale.

Per arrivare alla “conoscenza” del karate si deve obbligatoriamente passare attraverso lo studio della tecnica, ed in prima analisi c’è lo studio della posizione.

Le principali posizioni del karate-Do sono:

Shizen-tai posizione naturale, include le posizioni Musubi-dachi, Heisoku-dachi, Hachiji-dachi;
Zenkutsu-dachi Posizione Frontale il peso è distribuito al 60% sulla gamba anteriore
Kokutsu-dachi Posizione basata sulla gamba posteriore il peso è distribuito per il 70% sulla gamba posteriore
Kiba-dachi Posizione del fantino il peso è distribuito in modo eguale sulle due gambe e i piedi sono paralleli tra loro
Shiko-dachi Posizione quadrata come per il kibadachi con la sola differenza che i piedi in questo caso sono rivolti verso l’esterno
Fudo-dachi          Posizione radicata
Nekoashi-dachi   Posizione del gatto
Sanchin-dachi     Posizione a clessidra

Si può comprendere, dal gran numero di posizioni, che ci vorrà un allenamento specifico per ognuna. L’allenamento delle posizioni serve inoltre a rinforzare la parte inferiore del corpo al fine di sostenere e incrementare la velocità d’esecuzione delle tecniche. Lo studio della posizione porta inoltre a considerare un altro aspetto molto importante nella tecnica di karate la rotazione delle anche. La rotazione delle anche nel karate equivale alla potenza della battuta nel baseball.
Molta importanza è data all’apprendimento di questa dinamica, ad esempio alcuni metodi d’allenamento per la rotazione dell’anca sono:

Da posizione zenkutsudachi aprire l’anca in questo modo si può definire questa postura come “ hanmi anca aperta”, ruotando i fianchi in posizione frontale di 45 gradi chiudere l’anca. Punto importante è mantenere lo stesso livello dell’anca nell’eseguire questo movimento. Quando ci si è impadroniti di questo movimento si può iniziare ad aumentare gradatamente la velocità delle tecniche.

Da posizione Kokutsudachi spostando lateralmente la gamba anteriore portare il peso sulla gamba anteriore, quindi spingendo con forza la gamba posteriore in avanti far scattare l’anca in avanti. Al contrario tirando forte con la gamba posteriore portare l’anca in posizione hanmi la gamba anteriore segue il movimento.

Le tecniche di karate comprendono inoltre tecniche di braccio, mano e gomito Anche in questo caso ci sono diversi modi di usare le mani, diverse forme secondo la circostanza. Nel karate-Do si usa dire: ” mani e piedi come spade” in sintesi le parti del corpo atte a difendersi o colpire dovranno essere rinforzate attraverso l’uso di attrezzi specifichi del Karate come il makiwara e il sacco. Se non si rinforzano queste parti del corpo sarà facile che, una volta raggiunto il bersaglio, si feriscano.
Le parti della mano chiusa più usate per colpire il bersaglio sono:
Seiken Pugno diretto frontale
Nakadaka ken Pugno con la nocca del medio
Kentsui Pugno a martello
Ipponken Pugno con una sola nocca
Uraken Pugno con la parte dorsale
Hiraken Pugno con le nocche inferiori

Vi sono inoltre diversi modi di colpire a mano aperta per citarne alcuni:

Shuto Mano a coltello, parte esterna
Haito Mano a spigolo, parte interna
Nukite Mano a lancia, punte delle dita
Teisho Parte del palmo della mano

Si deve inoltre intendere che essendo il Karate un’arte d’autodifesa è necessario apprendere in primis le tecniche di difesa.
Le più comuni a mano chiusa sono:
Age-Uke Parata alta contro un attacco diretto al viso
Soto-Uke Parata media dall’esterno verso l’interno
Gedan-Barai Parata bassa usata per contro un attacco all’inguine
Uchi-Uke Parata media dall’interno verso l’esterno
Le principali a mano aperta:
Shuto-Uke Parata media dall’interno  verso l’esterno
Tate-Shuto Parata media dall’alto verso il basso
Teisho-Uke Parata media con il palmo della mano

Inoltre nella pratica del karate, le tecniche di gamba rivestono una notevole importanza, dal momento che una tecnica di calcio è molto più potente di una tecnica di pugno. Molto importante durante l'esecuzione di una tecnica di gamba, è il buon equilibrio poiché il peso del nostro corpo viene, durante il movimento, sopportato dalla sola gamba di sostegno.
È quindi indispensabile che il piede d’appoggio sia saldamente fissato a terra e che la caviglia di tale gamba sia completamente contratta.
Affinché la tecnica sia pienamente efficace, bisogna sfruttare completamente tutto il nostro corpo e non solo la gamba che esegue l'azione. Ruolo determinante durante la tecnica è svolto dalle anche, delle quali bisogna a pieno sfruttare la spinta in direzione dell'attacco; deve inoltre essere rapidamente richiamato indietro il piede che calcia (Hikiashi), riportandosi in posizione per una la successiva ed allo scopo di evitare una possibile presa da parte dell'avversario.

La forza del calcio è determinata da diverse componenti:
1) Ampiezza della traiettoria del piede;
2) Velocità della tecnica;
3) Potenza esplosiva del ginocchio.

Per meglio comprendere le varie tecniche di gamba, è indispensabile quale primo passaggio, scomporre le stesse nei singoli movimenti che le compongono:
1) Piegamento del ginocchio (Hikiashi):
Alzare il ginocchio della gamba che colpisce il più alto possibile e piegarlo completamente, trasferendo il peso della gamba il più possibile vicino al tronco.

La padronanza di questo movimento, eseguito in rapidità e scioltezza, permette di effettuare una tecnica rapida, potente e limitatamente alle possibilità personali consente di raggiungere facilmente bersagli più alti.
2) Slancio, piegamento e distensione della gamba usare l’oscillazione del  bacino usandolo ad esempio come si trattasse di un pendolo:
Nel karate, esistono due diversi modi di calciare:
Keage Calcio frustato
Kekomi Calcio spinto
I principali calci Keage “frustati” sono:
Maegeri Calcio frontale
Yokogeri “keage” Calcio laterale frustato
Mawashigeri Calcio circolare dall'esterno
Uramawashigeri Calcio circolare dall'interno

Nel calcio frustato s’impiega al massimo la forza di slancio del ginocchio. La velocità è un fattore essenziale, senza la quale si rischia di perdere l'equilibrio.

La massima contrazione è espressa al momento finale dell'impatto, anche per favorire un rapido ritorno del piede.
I principali calci Kekomi “spinti” sono:
Yokogeri “kekomi” Calcio laterale spinto
Ushirogeri Calcio posteriore
Fumikomi Calcio laterale livello basso

Nel calcio spinto, la gamba si distende al massimo e si spinge in fuori fortemente il piede. Dopo che il ginocchio è stato sollevato, la gamba viene tesa con forza per calciare, aiutata dalla forte spinta delle anche.
La massima contrazione viene espressa al momento iniziale dell'impatto.

3) Corretto impiego delle anche e delle caviglie:

In entrambi i tipi di calcio, la forza delle sole gambe non è sufficiente ad eseguire un calcio efficace.
Ad essa deve essere abbinata la spinta delle anche e quella del ginocchio. A tale scopo le caviglie devono essere sottoposte ad un adeguato allenamento finalizzato al loro consolidamento e irrobustimento tanto più che nel karate tradizionale il tallone deve essere mantenuto a contatto con il suolo per poter essere definito come tecnica definitiva.

Alcune dinamiche d'allenamento delle principali tecniche di calcio:

1) MAE-GERI (calcio frontale)
2) MAE-GERI (calcio frontale frustato)
1) Questo calcio può essere eseguito sia frustato sia spinto (keage e kekomi). La parte che colpisce il bersagli si chiama “Koshi”
2) Si esegue piegando completamente il ginocchio portandolo all'altezza del petto e poi calciandolo con un forte movimento a frusta. Il piede esegue una traiettoria diretta verso il bersaglio avendo come fulcro il ginocchio, dopo aver eseguito il calcio si riporta indietro la gamba che ha colpito accostandola al lato interno della gamba di sostegno. Durante tutta la tecnica, il busto deve mantenere una posizione eretta.
L'effetto frusta sarà tanto più evidente quanto più velocemente avverrà il ritorno della gamba che ha effettuato la tecnica. Si deve inoltre tenere presente che un ruolo molto importante viene svolto dal bacino che oscillando in avanti svilupperà una forza più efficace che non il solo movimento del ginocchio.
YOKO-GERI (calcio laterale)
1) YOKO-GERI KEAGE (calcio laterale frustato)

2) YOKO-GERI KEKOMI e FUMIKOMI (calcio laterale spinto)
Questa tecnica mira soprattutto a colpire un bersaglio posto lateralmente, (è comunque possibile colpire un bersaglio frontale, ruotando preventivamente la nostra posizione rispetto ad esso), con il taglio del piede (sokuto) mantenendo il tronco in posizione frontale.

Questo calcio può essere eseguito sia frustato che spinto (keage e kekomi).

1)Si esegue caricando il ginocchio verso il busto e spingendo poi lateralmente la gamba. In definitiva si calcia utilizzando la spinta del ginocchio per terminare con la rotazione e spinta dell'anca. Per riuscire a mantenere il corretto equilibrio è necessario che il ginocchio della gamba di sostegno sia leggermente piegato, anche in questo caso l'effetto frusta sarà più evidente quanto più si sarà sfruttato il movimento oscillante delle anca e si sarà richiamata velocemente la gamba che ha effettuato la tecnica.

2) Si esegue quasi come il precedente, spingendo lateralmente la gamba dopo aver caricato al tronco il ginocchio. S’impiega per colpire con il taglio del piede. In questa tecnica è importante sfruttare al massimo la spinta delle anche e lo scatto del ginocchio che deve essere sollevato il più in alto possibile.

Più lunga è la traiettoria del piede e più potente sarà il calcio. Tale traiettoria, durante il calcio e poi durante il ritorno, deve essere la medesima al fine di concentrare più forza sul bersaglio e mantenere un migliore equilibrio. Importante l’azione degli addominali che permetteranno la dinamica precedentemente descritta.
Nella tecnica fumikomi la parte del piede che colpisce è il taglio del piede o il tallone, in questo caso il richiamo è meno rapido, ma viene portato al massimo l'effetto d’impatto violento, anche eseguendo traiettorie di caricamento assai ampie.

MAWASHI-GERI (calcio circolare)

Affinché questa tecnica sia efficace, è necessario che le anche ruotino velocemente e con forza. Il primo movimento della dinamica del calcio circolare, vede il ginocchio che si alza lateralmente con la gamba piegata, affinché il calcio risulti potente, è necessario ruotare l'anca ed infine lanciare la gamba verso il bersaglio.
In definitiva questa tecnica consiste nel far ruotare la gamba che calcia attorno al corpo, dall'esterno verso l'interno, utilizzando lo slancio della ginocchio e dell'anca.
La traiettoria del piede deve essere quasi parallela al suolo.
Eseguito il calcio, s’inizia la fase di ritorno che non è meno complessa, infatti, il piede che ha colpito, deve effettuare il ritorno seguendo in maniera inversa la stessa traiettoria e gli accorgimenti adottati all'andata.
URAMAWASHI-GERI
(calcio circolare inverso)

È simile al calcio circolare, ma eseguito con traiettoria inversa, cioè dall'interno verso l'esterno.
In questo caso la parte che va all'impatto è la superficie plantare del piede o il tallone (Kakato).
Anche per questa tecnica, importante è la velocità d’esecuzione, mediante soprattutto la rotazione dell'anca e l’estensione del anche.
Il caricamento iniziale, è quasi simile a quello dello yokogeri kekomi ma solo un po più esterno.
USHIRO-GERI
(calcio all'indietro)

Questa tecnica consiste nel colpire il bersaglio partendo da una posizione frontale, ruotare e calciare all'indietro.
Partendo da una posizione frontale, si ruota il corpo di cento ottanta gradi contemporaneamente al sollevamento del ginocchio della gamba che esegue la tecnica, fino al busto.
Tendendo poi la gamba, si va' all'impatto colpendo con il tallone (Kakato).

Il KATA


 L’aspetto più importante del Karate Tradizionale è il Kata. Il kata rappresenta la codificazione delle tecniche e la loro applicazione reale, attraverso l’analisi e la scomposizione del kata “Bunkai” si possono comprendere le tecniche d’attacco e di difesa oltre alla strategia del combattimento.
Il Kata è la base di partenza di qualsiasi tecnica è la tradizione è il nostro “Patrimonio Genetico” In effetti l'accezione giapponese del termine Kata traduce un insieme di tecniche, azioni codificate grazie alle quali sono state fissate conoscenze più vaste. Osservando l’esecuzione del kata si farà attenzione ai suoi due aspetti che in un’arte marziale sono sempre presenti: uno Esterno ed uno Interno. La Via Esterna è quella obbligatoria tramite la quale ogni pratica deve passare, mentre vi sono aspetti che rimangono nascosti alla maggioranza dei praticanti, quel qualcosa in più che s’intuisce che c'è ma al quale è difficile accedere; L'aspetto Interno costituisce il vero punto d’arrivo di un Arte Marziale.
Il Kata inizia e finisce con il saluto, alla base del kata vi è sempre una difesa e forse sta proprio in questo che il karate è ricerca del Do, ancora una volta riscontro vero delle parole del Maestro Funakoshi.
Ecco alcuni cenni storici sui kata trasmessici dal Maestro Funakoshi: “ Il Maestro Funakoshi Nel 1930 cambia i nomi dei Kata che ammontano sotto il suo insegnamento ai 15 kata classici di Okinawa, ma scelse per ogni Kata un’immagine rappresentativa, con ideogrammi che corrispondessero al sistema di pronuncia del nome giapponese ed è per questo che la maggior parte dei kata dello stile Shotokan hanno nomi diversi da quelli utilizzati nelle altre scuole dove si praticano kata della stessa origine.
In questo modo Pinan è diventato Heian 1,2,3,4,5, che significano: ” Pace o Tranquillità”;
Naifanchi è diventato Tekki 1,2,3, che significano “ Cavaliere d’Acciaio” ed esprime la posizione del corpo, che assume saldamente una postura che ricorda un cavaliere, l’acciaio si riferisce alla forza che ci vuole per eseguire questi Kata;
Kusanku è diventato Kanku Dai che significa “ Guardare il Cielo” che quindi conduce chi lo esegue ad uno stato d’animo molto aperto;
Seshan è diventato Hangetsu che significa “ Mezza luna” e corrisponde al modo di muovere i piedi a semicerchio;
Chinto è diventato Gankaku che significa per la sua particolare postura “ Gru posata sulla roccia
Wanshu è diventato Enpi che significa per le sue posizioni veloci alte e basse “Volo di rondine “.
Passai o Bassai-dai significa “ Attraversare o distruggere la fortezza
Jion riprende il nome del tempio Buddista di Jion
Jitte significa “Dieci Mani ovvero dieci avversari” è quindi il kata nel quale ci si allena a delle tecniche contro dieci avversari.
Questi 15 kata sono stati insegnati da Funakoshi, più tardi altri 11 kata sono stati aggiunti: Kanku-sho, Bassai-sho, Sochin, Nijushiho, Gojushiho-dai, Gojushiho-sho, Meykyo, Unsu, Chintei, Jiin, Wankan”.
unti importanti nell’insegnamento del Kata:
1) Inizia e finisce con il saluto;
2) Non è una combinazione di Kihon, dall'inizio alla fine deve avere continuità con armonia e ritmo;
3) Non cambiare le tecniche o movimenti per propria comodità (livello);
4) Corretto uso dell'Enbusen (tracciato di esecuzione);
5) Armonia (unione) della tecnica e della respirazione;
6) Precisare il numero dei movimenti e spostamenti, comprendere il tempo standard dell'esecuzione;
7) Direzione dello sguardo nella direzione delle tecniche;
8) Il movimento deve essere vivo, i Kiai deve venire dall'addome;
9) Il cambiamento di direzione deve essere effettuato con la rotazione delle anche, la gamba di sostegno deve essere forzata contro il terreno per avere forza riflessa e lo spostamento deve essere effettuato con leggerezza;
10) La tecnica deve essere effettuata nello stesso momento del cambiamento di direzione
11) Deve essere chiaro il significato della tecnica;
12) Deve essere molto chiaro il collegamento delle tecniche;
13) Si deve cercare di non fare movimenti inutili, reazione ecc.;
14) E’ necessario ripetere molte volte l'allenamento di Bunkai
Tre punti importanti:
A - Uso della velocità;
B - Uso della forma;
C - Uso del corpo

L’apprendimento dei kata deve essere graduale e non si dovrebbe dimenticare: l'antico detto HITO KATA SAN NEN, Un Kata ogni Tre Anni che dimostra quanto occorra studiare poiché non c'è una Via facile e nulla viene regalato.
Sarà utile, nelle prime fasi di apprendimento, suddividere il kata in vari momenti la prima fase riguarda certamente il tracciato d’esecuzione con le annesse tecniche dopodiché la memorizzazione delle tecniche, la loro concatenazione e il tempo di esecuzione.

Una volta memorizzato si dovrà allenare con assiduità perché la conoscenza profonda del kata porterà sicuramente il praticante a capire meglio il Karate nei suoi aspetti Interni, senza dimenticare che solo attraverso la pratica quotidiana si potrà trovare, un giorno forse, sulla giusta via del Karate-Do. L’uso corretto della forza, della velocità, della transizione “forse l’aspetto più difficile da spiegare” della forma e dello zanshin fanno del kata uno strumento unico di apprendimento

KUMITE: Combattimento.
Il combattimento nel Karate-Do presuppone il completo controllo sia dell’aspetto tecnico sia dell’aspetto emotivo. Non si deve mai colpire l’avversario il concetto di KO non esiste nel Karate Tradizionale, rimane comunque inteso che la tecnica di Karate deve avere tutti requisiti indispensabili per essere definita “tecnica definitiva”, definitiva nel senso che deve essere in grado di distruggere la capacità offensiva e difensiva dell’avversario. Nel kumite deve sempre essere presente il pensiero del Maestro Funakoshi: ”Karate ni sente nashi” (nel karate non c’è vantaggio ad attaccare per primi) oltre al fatto che combattere non vuol dire necessariamente vincere a tutti i costi ma combattere con l’idea di non subire in nessun caso deve sempre essere presente, una frase che forse può aiutare in questo è quella citata nel libro Canzoni sulla Via della Spada." Vinco oggi grazie al lavoro di ieri questa è la virtù della pratica". Solo con questi presupposti etici l’Arte Marziale viene espressa in tutte le sue forme più nobili.
Vi sono tre diverse fasi di kumite: Fondamentale, semilibero e libero. Gohon Kumite, Sanbon Kumite e Kihon Kumite fanno parte del kumite fondamentale mentre il Jiu Ippon Kumite è il semilibero ed infine il Jiu Kumite combattimento libero.
Gohon Kumite: Combattimento fondamentale preordinato di cinque passi. In questo particolare tipo di combattimento l’atleta acquisisce la potenza della tecnica sia di difesa sia di attacco, lo studio dell’assetto e della stabilità è uno dei principali motivi per allenare questo tipo di Kumite. Solitamente il tempo dell’attacco è cadenzato;
Sanbon Kumite: Combattimento fondamentale preordinato di tre passi. In questo caso l’atleta deve a, a differenza del primo, acquisire il tempo dell’attacco, della difesa e possibilmente il controllo emotivo non subendo l’iniziativa dell’avversario. Il tempo dell’attacco è libero;
Kihon Ippon Kumite:
La fase in cui ci si scontra, forse per la prima volta, con la propria determinazione sia per chi attacca sia per chi difende. L’equilibrio emotivo si acquista attraverso lo studio serio ed approfondita di questo lato del Kumite;
Jiu Ippon Kumite: Combattimento semilibero ad un passo le tecniche vanno dichiarate prima di attaccare. Il tempo come pure la distanza e gli spostamenti sono liberi, resta inteso che l’attacco va portato con assoluto controllo. In questo tipo di kumite si deve tener presente che vi è una sola possibilità di attacco e pertanto lo studio della distanza e del tempo deve essere acquisito attraverso lo studio di questa forma, parimenti lo studio degli spostamenti e del tempo della difesa è altrettanto importante.
Jiu Kumite: Aspetto molto importante del Karate è appunto il combattimento libero. In questo caso lo scontro mentale e fisico degli avversari avviene su un piano diverso. L’attacco può essere singolo o combinato, la distanza e il tempo è libero si deve curare ancora una volta di più il controllo della tecnica e della mente. L’aspetto di controllo mentale è base essenziale per il miglioramento dell’attività psichica del karateka nella sua più alta espressione, controllare la mente equivale a controllare il corpo e pertanto la tecnica, solo con questi presupposti il combattimento libero può essere educativo e vissuto come Arte marziale altrimenti si corre senz’altro il rischio di ferire se non addirittura uccidere il proprio avversario come avviene nella Boxe o in altre discipline violente.

Vorrei evidenziare, qui di seguito, alcuni precetti d’insegnamento del Maestro Anko Itosu al Maestro Funakoshi “Tratto dal libro la Storia del karate di K.Tokitsu” tenendo a mente il momento storico si impone necessariamente da parte mia una interpretazione non militaristica della situazione, in effetti, quando il Maestro parla di soldati io penso all’accrescimento sociale ed umano.
01) Il Karate non ha come scopo soltanto di educare il corpo, ma di permettere di consacrarsi in qualunque momento, con un coraggio vitale, al proprio Maestro, ai parenti, al bene pubblico. E’ per questo che non mira al combattimento contro un solo nemico. Anche se l’avversario è un ladro o un aggressore, bisogna sforzarsi di parare e schivare. E’ importante non ferire facilmente gli altri con calci e pugni;

02) Il Karate ha come scopo principale rendere il corpo robusto come l’acciaio e fare delle membra l’equivalente di una lancia o di un arpione. Esso coltiva naturalmente una forza di volontà marziale. Quindi, se lo si insegna ai bambini nell’età della scuola elementare, essi avranno occasione di applicare il Karate ed altre arti quando diventeranno più tardi dei soldati. Come militari, potranno essere utili alla società del futuro. Il Generale Wellington aveva detto a Napoleone I° “ La battaglia di oggi può essere vinta sul terreno di gioco della scuola del nostro paese”. Questa frase deve essere compresa come una massima importante;

03) E’ difficile progredire rapidamente nel karate. Conformemente alla massima: “Un bue cammina lentamente, ma supererà un giorno le mille leghe”, se ci si allena una o due ore con concentrazione ogni giorno si otterrà, nel giro di tre o quattro anni, un corpo superiore al normale. Così numerosi adepti raggiungeranno lo stato profondo del karate;

04) Nel karate ci si serve soprattutto delle mani e dei piedi. Bisogna allenarsi pienamente tutti i giorni al makiwara, abbassando le spalle, aprendo bene i polmoni, sprigionando la forza, calcando inoltre fortemente il suolo con i piedi, concentrando il Ki alla base del ventre. Quando si progredisce, bisogna esercitarsi cento duecento volte per ogni pugno al makiwara;

05) A proposito della postura nel karate, occorre mettersi appiombo a livello delle anche, abbassare le spalle decontraendole, stare in piedi appoggiando i piedi con forza, concentrando il Ki alla base del ventre. Occorre inoltre che il corpo si indurisca come se le parti in alto ed in basso del corpo si tirassero reciprocamente;

06) A proposito dei Kata di karate, bisogna allenarsi ripetendoli il più possibile. Ma è indispensabile conoscere il significato e l’applicazione di ogni tecnica. Bisogna sapere che vi sono numerosi insegnamenti verbali complementari ai Kata per le tecniche di attacco, di parata, di liberazione e di presa;

07) A proposito delle tecniche, occorre allenarvisi distinguendo quella che rafforzano il corpo e quelle che hanno un obiettivo strategico;

08) Durante l’allenamento del karate, bisogna avere la volontà di un guerriero, con lo sguardo forte, spalle abbassate, corpo indurito. “ Quando ci si allena alle parate e ai colpi, bisogna farlo sempre con tanta volontà come se si facesse fronte a dei veri nemici” allora si potranno acquisire delle capacità reali. Si deve fare bene attenzione;

09) Nel momento dell’allenamento al Karate, se ci si sforza troppo in rapporto alle proprie capacità fisiche, il viso e gli occhi si arrossano perché il ki risale. Bisogna fare attenzione, poiché ciò è nocivo alla salute;

10) Abitualmente la vita degli esperti di karate è lunga; questo dipende dal fatto che essi sviluppano i muscoli e le ossa e migliorano anche il sistema digestivo e la circolazione sanguigna. Per questo penso che se utilizziamo il karate come base di educazione fisica nel sistema scolastico fin dalla scuola elementare, potremo formare su vasta scala degli uomini capaci di far fronte a dieci avversari grazie all’arte che avranno acquisito.

“ Se insegnamo il karate all’Istituto magistrale seguendo queste dieci istruzioni formeremo degli Istruttori che insegneranno in seguito nelle scuole delle diverse regioni. E, se essi insegneranno con rigore nelle scuole elementari regionali, penso che il, risultato sarà evidente di qui a una decina d’anni, non soltanto nella nostra provincia, ma in tutto il paese, e che saremo, così, utili alla società militare del nostro paese.
Anko Itosu Ottobre 1908.
IL RAPPORTO ALLIEVO MAESTRO.

Da sempre nel Karate come del resto in tutte le arti marziali la trasmissione delle conoscenze avviene attraverso la figura del Maestro.

Ad Okinawa, ad esempio, con l’avvento del Clan Satsuma venne emanato un editto che vietava la pratica delle arti marziali motivo per il quale esse venivano spesso insegnate di notte e il luoghi sicuri.

Sin dai tempi antichi l’esoterismo nel Karate era una forma obbligata d’insegnamento e la trasmissione, a una cerchia ristretta di persone, faceva si che nelle arti marziali la trasmissione dell’Arte sia sempre avvenuta oralmente niente era scritto. In questo contesto la figura dominante era ed è il Maestro.

Il punto cardine della cultura e delle conoscenze nel Karate-Do è il Maestro.
La trasmissione avveniva e avviene tuttora come si usa dire “da mente a mente” o come amano dire i Buddisti da “ cuore a cuore” ovvero da Maestro ad allievo.

Il rapporto che si viene a creare tra l’allievo e il Maestro in questo caso è un rapporto molto particolare, in effetti le parole in alcune occasioni non servono, bisogna saper cogliere il momento, l’attimo, l’espressione del Maestro.
Anche questa è una sua prerogativa, l’adottare degli espedienti affinché l’allievo percepisca, intuisca o paragoni il suo vissuto con la tecnica del Maestro.
L’allievo deve recepire, ascoltare e cercare di mettere in pratica quello che il Maestro chiede e richiede. Spesso ci si può bloccare davanti alle difficoltà ma si deve avere fiducia nel Maestro, una fiducia incondizionata, d’altra parte gli e ne può venire solo del bene.
Essendo un rapporto fra persone tra allievo e Maestro si deve instaurare un rapporto fiduciario, l’allievo deve comprendere che tipo di persona è il Maestro, se è capace e, ancora più importante, se è sincero e onesto, il Maestro da parte sua ha l’obbligo morale di non nuocere alla persona che si affida ai suoi insegnamenti.

Vorrei qui riportare parte di una prefazione tratta da un testo scritto dal Maestro Shirai “Manuale di Karate” che ritengo molto esaustiva di quanto sopra esposto: “ E' osservazione corrente, rilevare come, ai giorni nostri, vi sia una larghissima parte di uomini che affermano di aver compiuto atti, ricerche o esperienze ad essi, nella realtà, del tutto sconosciuti. Si comportano così perché, impressionando con le parole, nascondono la loro sostanziale povertà spirituale di cui potremmo anche dolerci se non dovessimo constatare che la generalizzata mancanza di senso critico, la scarsa volontà di approfondire le apparenze ed un crescente disimpegno culturale consentono loro di affermarsi progressivamente raggiungendo risultati che assolutamente non meriterebbero.
E' a questo tipo di uomo che dobbiamo cercare di contrapporre una personalità che, pur cosciente dei propri limiti e pur pienamente convinta di non poter attingere la perfezione, si sforza ogni giorno di correggere i propri errori con pazienza e con umiltà.

Questo tipo di uomo deve costituire il nostro modello comportamentale e non solo per una forma di nostro, personale, arricchimento ma dare un contributo concreto a modificare dal di dentro una società che sembra privilegiare sempre di più chi non merita. E' necessario, in altri termini, essere uomini che sappiano dimostrare con i fatti le proprie capacità mettendo a frutto gli sforzi compiuti per acquisire conoscenze utili a sé stessi ed agli altri.
Importante, ed addirittura pregiudiziale, è avere la convinzione che la ricerca della perfezione nella coscienza della propria perfettibilità è possibile solamente quando il proprio livello culturale, inteso come senso spirituale e non certo nozionistico del termine, è mantenuto alto.

Mantenere alto il proprio livello significa, soprattutto, ripercorrere continuamente il cammino intrapreso rivivendo sempre i vari momenti, i diversi gradi, le necessarie esperienze progressivamente vissute. La ricerca di un vertice sempre più alto non farà diminuire, in questo modo, l'estensione della base di quella piramide con cui si può configurare la vita e la solidità della base è premessa di analoga forza della sommità: un punto estremo di cui si conosce l'esistenza ma che non si sa quanto alto possa essere. Sono queste le fondamenta ideologiche con cui affronto l'allenamento pienamente convinto, come sono, che esso rappresenti la visualizzazione di concetti interiori dai quali tutte le tecniche traggono un valore infinitamente più alto.
Io spero che chi perseguirà la via del karate non perda mai di visto mio pensiero: in caso contrario farà solo dell'ottima ginnastica”.

Conclusioni: :
La vita di ognuno di noi, con il suo carico di esperienze, di azioni, di riflessioni e di conoscenze si presenta come una mappa, un reticolo ricco di vuote di pieni, segnato da relazioni di continuità e discontinuità.
Nella mia storia il Karate entra come scoperta, curiosità, si trasforma in obiettivi di ricerca della forma, del benessere , fino a diventare progressivamente una dimensione di collegamento fra forma, il benessere, la conoscenza e la relazione con gli altri.
Ecco, in questo collegamento, in questa relazione, sta forse la potenzialità che il Karate ha in me contribuito a sviluppare l’agire, ma non solo il fare, ma il saper agire e il saperlo trasmettere agli altri.

Oss.
Davide Rizzo

Tabella testi Davide - Scritti da noi

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