Yamato Takeru è il più antico eroe giapponese - probabilmente realmente esistito - le cui gesta sono avvolte nella leggenda. Il personaggio è circondato da molti elementi mitologici che rendono difficile distinguere ciò che è mito da ciò che appartiene alla Storia.
Il Principe Ouso – questo è l’originario nome di Takeru -, visse effettivamente nel IV secolo d.C. ed era uno degli ottanta figli dell’Imperatore Keiko, altro personaggio leggendario.
Di Yamato Takeru parlano sia il Kojiki che il Nihon Shoki, i due testi fondamentali per la mitologia nipponica e per la Storia del Giappone arcaico. Rappresenta il prototipo dell’eroe, nel senso giapponese del termine.
Agli eroi, nella cultura nipponica, non si chiede di avere una vita tutta costellata di gesta nobili e coraggiose; quello che conta è il momento finale della vita, il modo con cui affronta la morte.
L’eroe giapponese è solitario, romantico, ubbidisce al proprio dovere anche quando questi lo porta ad affrontare imprese impossibili il cui triste finale sembra inevitabile.
La vita di Yamato Takeru è esemplare in questo senso e la possiamo dividere in due parti: la prima parte fatta di vittorie spesso ottenute con stratagemmi che di eroico e nobile hanno ben poco e la seconda parte in cui esce tutto l’eroismo, il romanticismo e la nobiltà del personaggio che da bruto ed insensibile si trasformerà in un eroe capace di piangere ed implorare la sua amata.
Morirà poi solitario e sconfitto nella piana di Nobo.
Un giorno l’Imperatore Keiko disse al figlio, il Principe Ouso, di andare a rimproverare il fratello che, da vari giorni, non partecipava alle cene. Dopo qualche giorno, visto che le assenze continuavano, chiese al figlio Ouso se avesse rimproverato il fratello e questi rispose che gli aveva dato il rimprovero che si meritava: l’aveva ucciso e fatto a pezzi.
L’Imperatore, spaventato dalla crudeltà del figlio, e non volendo altri guai a corte, lo spedì ad Ovest a combattere alcune tribù ribelli. Il Principe Osuo, prima di partire, visitò sua zia, la Gran Sacerdotessa del tempio di Ise, che gli regalò una spada e degli abiti femminili.
La tribù da riportare all’ubbidienza, era quella dei Kumaso guidata da due fratelli.
L’accampamento era molto affollato per l’imminenza di una festa e il Principe Ouso, per avvicinare i due fratelli, si travestì da giovane ragazza e attirò così la loro l’attenzione. Alla prima occasione uccise uno e l’altro, prima di ricevere il colpo di grazia, gli parlò lodandolo per il suo coraggio e dandogli come nome Yamato Takeru, il Prode del Giappone (Yamato=Giappone, Takeru=Prode).
Sulla via del ritorno incontrò un altro capo ribelle, Izumo Takeru. Per vincerlo escogitò uno stratagemma, effettivamente, poco nobile: si finse suo amico e intanto si costruì una spada di legno che sostituì alla propria. Un giorno propose al suo nuovo amico di scambiarsi le spade e di imbastire un duello amichevole. Izumo Takeru prese così la spada di legno finendo quindi in completa balia di Yamato Takeru.
Tornato dal padre, l’Imperatore Keiko, non venne accolto con grandi onori, ma, anzi, l’Imperatore lo spedì ad oriente per combattere altre tribù.
Qui comincia la seconda parte dell’avventura di Yamato Takeru, quella che lo porterà ad essere il primo eroe nel Storia del Giappone.
Il nostro eroe è ormai convinto che il padre lo mandi a pacificare tribù ribelli, senza un esercito per giunta, nella speranza di una sua morte precoce, ma, nonostante questo, Takeru accetta i suoi compiti e li porterà a termine ad ogni costo.
Anche in questa occasione, prima di partire, si reca dalla zia sacerdotessa che gli dà due doni: una borsa da aprire in caso di emergenza e una spada (la mitica spada Ama-no-Murakumo-no-Tsurugi che poi cambierà il nome in Kusanagi).
Con questi due doni, Yamata Takeru, parte per sconfiggere le tribù orientali e i dei che li proteggono. Presto la sfida alle divinità diventerà preminente rispetto alla sconfitta delle singole popolazioni.
Yamato Takeru iniziò quindi il suo viaggio verso Est.
Nella terra di Owari si fidanzò con la bella Principessa Ototachibana e con lei continuò il viaggio.
Arrivato nella provincia di Sogani, cadde in un tranello tesogli dal locale capo il quale, dopo averlo attirato in una zona paludosa, appiccò fuoco attorno a lui. Takeru, grazie alla spada magica che aveva con sé, spense il fuoco falciando l’erba e, con la pietra focaia contenuta nella borsa regalatagli dalla zia, provocò a sua volta un incendio contro il suo nemico. In onore di quell’evento, chiamò la spada “Kusanagi” (falcia-erba).
Da Sogami si diresse allora verso la provincia di Kazuma. Altra difficoltà si trovò di fronte al momento di superare lo stretto di mare: il dio a guardia del luogo, incollerito, non volle farlo passare. A questo punto entrò in scena Ototachibana che pose sulle onde otto strati di stuoie, otto di pelli di cuoio e otto di tappeti di seta. Vi montò sopra e si inabissò nelle acque dello stretto. Questo suo sacrificio placò le ire del dio e Yamato potette attraversare indenne il braccio di mare.
Per giorni pianse ed invocò la Principessa Owari che si era sacrificata per permettergli di continuare nell’impresa. Dopo sette giorni a riva trovò il suo pettine che venne seppellito in una tomba.
Nel suo viaggio arrivò quindi nella provincia di Shinano dove scalò un’alta montagna. Arrivato in cima si sedette per consumare il pranzo quando arrivò il dio di quella montagna - sotto forma di un cervo bianco - per tormentarlo.
La lotta fu furiosa, ma alla fine il nostro eroe gettò uno spicchio d’aglio nell’occhio dell’animale e così riuscì ad ucciderlo. Rimasto intontito dalla battaglia, non trovò più la via del ritorno fino a quando un servizievole cane bianco non gli indicò la strada per tornare a valle.
Yamato Takeru, a questo punto, pensò bene di intraprendere la via del ritorno e, su questa strada, si fermò nella provincia di Owari dove sposò la locale principessa.
Venne qui a sapere di una divinità maligna che abitava sul monte Ibuki. In uno scatto d’orgoglio disse che l’avrebbe ucciso a mani nude e partì lasciando la spada Kusanagi in custodia alla moglie. Sulla salita incontrò un grosso cinghiale bianco – era il dio in persona che però gli fece credere che era solo un messaggero. Takeru, non ritenendolo degno di lui, lo superò e continuò l’ascesa. Lo sgarbo irritò molto il dio che scatenò una tempesta proprio sulla testa dell’eroe ignaro di quello che aveva fatto. Alla fine Yamato Takeru, ferito, stordito e malato, riuscì a tornare a valle, ma ormai le forze lo stavano abbandonando.
Il suo pensiero fisso, ora, era quello di tornare a casa dal padre Imperatore per riferirgli della sua spedizione. Non ci riuscì in quanto, nella piana di Nobo, si accasciò e, dopo aver composto alcune poesie di commiato, morì.
L’Imperatore Keiko – lo stesso che aveva mandato il figlio in questa spedizione impossibile – pianse amaramente per la morte del valoroso figlio. Sul punto in cui morì venne eretto un tumulo per custodire i suoi resti.
La leggenda narra che venne visto un uccello bianco uscire dalla tomba che poi venne effettivamente trovata vuota e contenente solo il sudario, nel quale era stato avvolto, e le sue vesti.
Così finì l’epopea di Yamato Takeru.
Come detto è il prototipo dell’eroe giapponese; nella sua storia compaiono tutti gli elementi caratteristici degli eroi: la sfida impossibile, la nobiltà e la sensibilità del personaggio, il romanticismo, la morte solitaria, il destino avverso, la passione per la poesia e per la cultura in generale.
La Storia giapponese è piena di questi personaggi che, nell’immaginario popolare, hanno avuto più successo rispetto ai personaggi storici che hanno avuto la vita costellata di fortune, successi e vittorie militari.