di Yukio Mishima.
L'etichetta secondo Yuko Mishima senza voler giudicare la persona trovo, in questo testo un significato etico profondo che a mio avviso va analizzato e compreso. L'etichetta diviene così un momento nel quale porre molta attenzione sia per quanto riguarda l'arte marziale sia per la conduzione della vita e dei rapporti di tutti i giorni.
Yuko Mishima rimane un
personaggio difficile e complesso, travisato ed etichettato genericamente come "fascista", era in realtà un nazionalista nostalgico, un
conservatore che si suicidò con il rito del seppuku ( più noto cone harakiri) in diretta televisiva nel 1970 lasciando un biglietto con scritto: «La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre».
Kimitake Hiraoka (
Hiraoka Kimitake 平岡公威)
nacque a Tokio nel 1925. Figlio di un ufficiale del governo giapponese che ostacolava la sua passione per l’arte e le lettere, pubblicò le sue opere con lo pseudonimo di
Yukio Mishima.
Si dice che il Kendō inizi e finisca con un inchino, ma dopo il primo inchino, l'unico obiettivo è colpire l'avversario. Ciò simboleggia egregiamente la realtà dell'universo virile.
Prima del combattimento è necessario osservare una determinata etichetta che rappresenta la premessa dello stesso combattimento.
Ma cosa è più importante: l'etichetta o il combattimento?
Secondo i principi del Kendō prevale la cortesia, l'etichetta.
Per quale motivo? Fin dai tempi più antichi, come appare chiaro nei tornei dei cavalieri, è l'etichetta a regolare le contese nell'universo virile.
Nell'etichetta è naturalmente insito un codice morale, che si esprime anche nelle norme sportive.
Una disciplina sportiva praticata senza il rispetto per le norme non è più tale, diviene qualcosa di spregevole: violarne il codice conduce alla disfatta.
Le buone maniere non presuppongono tuttavia ubbidienza all'altrui volontà.
Sebbene l'etichetta sia per un uomo una premessa essenziale, cui deve assolutamente assoggettarsi, si è diffusa ai giorni nostri la strana credenza che un
atteggiamento sincero e spontaneo possa giungere più direttamente all'animo di chi ci ascolta.
Soprattutto colui che è ambizioso è invece tenuto a rispettare l'etichetta, più di chiunque altro; se lo farà, potrà persino esibirsi danzando nudo mentre beve il sake, essendosi ormai conquistata la fiducia dell'interlocutore che giudicherà la sua danza come un atto estremamente spontaneo e rassicurante.
Questa tattica non funzionerebbe affatto se egli fosse solito comportarsi con sregolatezza.
È per questo che esiste un'etichetta, capace di mantenere la dignità dell'uomo, ed è solo lasciando trasparire da essa la naturalezza, l'immediata spontaneità della natura umana, che si accresce il proprio potere sul prossimo.
Il linguaggio è, in tutte le sue sfumature, l'asse portante dell'etichetta e, immaginando che l'etichetta sia una porta, un linguaggio appropriato e meticolosamente adattato all'interlocutore assolve le funzioni dell'olio con cui si ungono le serrature. Ma nei tempi moderni esse cigolano troppo, poiché nessuno si preoccupa ormai di oliarle.
È assolutamente errato supporre che gli altri possano comprendere i nostri sentimenti profondi.
L'animo umano conserva sempre una parte ignota anche all'amico più intimo e più a lungo frequentato.
Le parole sono il ponte che ci unisce agli altri esseri umani, ma deve essere un ponte completo, provvisto di parapetto.
Tutto ciò è fornito dall'etichetta.
Si può dedurre da questo che il mondo virile ha molte affinità con lo sport.
Ci si disputa la vittoria seguendo determinate regole, che servono a velare il latente, radicale antagonismo tra i partecipanti.
L'etichetta è dunque una corazza per difendere l'uomo.
Chi non necessita di questa difesa non ha, in definitiva, alcun obbligo di conformarsi a un'etichetta. Costoro sono giudicati, a seconda dei casi, come animali o come creature assolutamente spontanee.
Per quanto mi riguarda, ho la ferma certezza che la essenza virile sia esaltata proprio
dall'autocontrollo e dalle norme di comportamento, così come è piacevole un uomo elegantemente abbigliato con un kimono da cerimonia perfettamente inamidato.
Un anno, al culmine dell'estate, mi recai al Ryu Kan, una famosa palestra di arti marziali di Kumamoto, dove mi esercitai al Kendō con alcuni giovani.
Conservo un indelebile ricordo di uno di loro, un giovane dell'ultimo corso che, grondante sudore, s'inginocchiò con il busto perfettamente eretto verso un piccolo altare e con voce squillante comandò agli altri: «Rei!».
Suscitò in me un'impressione di freschezza, come se in quell'istante si fosse lacerata la cortina di paura che mi opprimeva.
Mi parve che quello fosse un esempio perfetto di come un cerimoniale possa rendere affascinanti i giovani, molto più affascinanti di coloro che vivono in un modo sregolato e confuso.
Tratto da "Lezioni spirituali per giovani samurai" di Yukio Mishima, Edizioni Feltrinelli, 1990.