Il Commissario Tecnico delle Nazionali Fikta: il superamento del limite è solo una questione mentale.
Maestro Michielan, dov’è nato?
Sono nato in un paesino di campagna, Rio San Martino di Scorzè (Ve). Gli abitanti erano un migliaio, si viveva di cose semplici e ci si conosceva tutti. Ho trascorso la mia infanzia in una grande famiglia patriarcale che era composta, oltre che dai miei genitori e dai miei 5 fratelli, anche dal nonno paterno e dalla famiglia di mio zio, che aveva a sua volta sei figli. Ricordo che, nei giorni di festa, ritrovarsi a tavola tutti insieme era un grande avvenimento che mi riempiva di gioia.
Che professione svolge?
Sono insegnante di karate.
Quando e perché ha iniziato la pratica del karate?
Ho iniziato per caso. Era il 1969 e una sera, guardando la televisione, rimasi impressionato da alcune immagini che riguardavano una “nuova” arte marziale, da poco introdotta in Italia e proveniente dal Giappone. Mi affascinò in particolare la straordinaria energia che sembrava emanare un atleta che, con un calcio circolare, colpiva un sacco appeso: quell’immagine impressionò così fortemente la mia fantasia che nel periodo seguente mi dedicai con insistenza alla ricerca di una palestra vicina dove si insegnasse quell’arte marziale. Fu così che iniziai la pratica presso il Gymnasium di Treviso.
Quali sono gli aspetti o i valori di un’arte marziale che l’affascinano in particolare?
Di qualsiasi arte mi affascina la capacità di suscitare emozioni, talora anche senza comprenderne realmente il significato. In più, il grande valore dell’arte del karate risiede non solo nell’essere di per sé uno strumento di difesa della persona, ma nella capacità di creare un modello di vita che conduce al rispetto totale, sia fisico che mentale, di se stessi.
Chi è stato il suo primo Maestro?
Il mio primo Maestro fu Pietro Zaupa di Vicenza, che fu uno dei primissimi allievi del M° Shirai. A lui va la mia gratitudine e riconoscenza per avermi fatto innamorare di un’arte che non avrei più abbandonato e che sarebbe diventata il perno attorno a cui ruota la mia vita.
Quando ha conosciuto per la prima volta il M° Shirai? Può descriverci quel momento?
Ho conosciuto il M° Shirai nel 1971, nel dojo del M° Zaupa, e posso dire che fu un incontro atteso fin dall’inizio della mia pratica. Dopo l’allenamento, quando ci si fermava con i compagni di corso, si parlava spesso di un Maestro giapponese che viveva a Milano e che possedeva un’incredibile energia. Io ascoltavo aneddoti che mi lasciavano incredulo ed incuriosito e, quando lo incontrai per la prima volta, fui pervaso da una grande emozione, che non ho più dimenticato.
Mi ricordo che facemmo il kata
tekki shodan e la pratica fu così intensa che mi fecero male i muscoli per tre giorni, ma compresi da subito che non avrei più smesso di cercare quell’emozione e quell’intensità mentale che il Maestro è sempre riuscito a comunicare e che ancora oggi tanto mi appaga.
Com’è maturato ed è cresciuto il suo rapporto con il M° Shirai?
Il rapporto con il mio Maestro è basato sulla stima, il rispetto e la gratitudine. Sulla stima perché non mi ha mai deluso sul piano professionale, è l’unica persona al mondo che riesce a trasmettermi in maniera profonda la convinzione che il superamento del limite è solo una questione mentale e che attraverso la pratica si può migliorare la capacità di ascolto. Sul rispetto perché ogni volta che lo incontro vedo un uomo innamorato dell’arte che pratica e io mi sento molto fortunato a poter attingere dalla sua conoscenza e a respirarne il profumo. Sulla gratitudine perché gli devo gran parte di ciò che sono e di ciò che ho realizzato.
Qual è la sua specialità preferita nel karate e quando ha scoperto questa sua naturale predisposizione?
È il kumite, forse perché è imprevedibile e creativo; perché impone di sviluppare la capacità di adattamento, che è l’attitudine principale per la sopravvivenza dell’uomo. Compresi di avere una naturale predisposizione per questa specialità, che tra tutte preferivo, sin dalle prima gare. Devo dire però che negli ultimi anni mi sto divertendo anche con i kihon e i kata e le loro applicazioni.
Quando ha iniziato le sue prime competizioni?
Ricordo con piacere le prime competizioni regionali di
ju ippon kumite e dei kata
heian. La prima competizione di
ju kumite la persi così rapidamente che non compresi neppure bene cosa fosse successo…, ma fu comunque una lezione esemplare per il mio futuro agonistico.
Tra le diverse esperienze agonistiche che ha vissuto, quale ricorda oggi con più grande emozione?
Sicuramente il secondo titolo italiano che vinsi, subito dopo l’unione tra le due federazioni Fesika e Fik. Mi preparai molto per quell’occasione: mi sentivo responsabilizzato come allievo del M° Shirai e questo mi diede una forte convinzione riguardo alle mie capacità. Ricordo che, dopo aver vinto il primo combattimento, venni travolto da tutti gli amici della Fesika in festa, e io non riuscivo a comprenderne il perché. Poi mi dissero che avevo battuto il campione europeo della Fik in carica. Così, dopo 6 incontri, vinsi il titolo italiano, che ricordo ancora con emozione.
Quando si è dedicato all’insegnamento ed è divenuto Maestro?
Devo premettere che i miei erano altri tempi, si può dire che quelli della mia generazione sono stati un po’ i “pionieri” del karate italiano.
Io ho iniziato a insegnare quando ero appena diventato cintura marrone, come aiutante; poi, una volta arrivato al primo dan ebbi l’opportunità di insegnare ad un gruppo tutto mio. Sono poi diventato istruttore nel 1978 e Maestro nel 1982. Sicuramente oggi c’è una maggiore strutturazione, i nuovi insegnanti della Fikta sono molto preparati e capaci grazie ai corsi istruttori di alto livello che organizza la nostra federazione.
Può raccontarci un episodio o un aneddoto significativo della sua storia di karateka?
Ne avrei diversi, ma vorrei raccontarne uno per far capire com’è bello e gratificante insegnare, avendo la consapevolezza di essere utili agli altri. Ciò che si ha di ritorno è immensamente più grande di quello che si dà.
Stavo insegnando a un gruppo di bambini affetti da sindrome di down ed ero pervaso da una sorta di malinconia che già mi accompagnava da alcune ore, quando uno dei ragazzi, Enzo, mi chiamò: «Maestro, maestro» e, guardandomi diritto negli occhi, con un sorriso mi disse: «Io ti voglio bene!» Mi sentii scoperto di fronte a tanta spontaneità e così – un po’ impacciato – gli dissi: «Anch’io!». Immediatamente compresi quanto fossi fortunato ad avere l’opportunità di essere lì in quel momento e come fosse importante non sprecare quell’occasione.
Qual è il più grande insegnamento che lei, come Maestro, cerca di trasmettere ai suoi allievi?
Non so se è un grande insegnamento, ma cerco di trasferire ai miei allievi tutto ciò che ho imparato. Tra le cose alle quali tengo maggiormente c’è il concetto secondo cui
la pratica impone di riconoscere i propri punti deboli e a incrementare i punti di forza, non solo fisici ma anche mentali, la capacità di ascoltarsi e analizzarsi con buona disposizione d’animo. Io penso che questa sia la base essenziale non solo per il miglioramento della tecnica, ma anche del proprio essere uomini.
Inoltre, è importante non dimenticare che l’uso delle tecniche deve essere in armonia con i valori tradizionali di quest’arte ed a quelli connaturati alla morale comunemente condivisa.
Che rapporto ha con i suoi allievi?
I miei allievi sono uno stimolo importante per me; la loro costante presenza – per alcuni addirittura ultratrentennale – mi incentiva nel proseguire lo studio del karate do. Ed è questo, in fondo, ciò che loro si aspettano da me, spero di continuare a vederli per molti anni ancora, con un comune progetto: crescere insieme.
Cosa ritiene fondamentale nella preparazione di un agonista ad un combattimento di kumite libero?
Non credo ci sia una sola cosa, ma un insieme di aspetti diversi: è necessario incrementare le capacità tecniche generali e specifiche attraverso una costante pratica; sviluppare il kime, il senso della distanza, lo spirito combattivo, il controllo e la variabilità delle strategie. Quest’ultimo elemento è in realtà fondamentale per poter applicare efficacemente gli altri:
credo quindi che tutti noi, insegnanti ed atleti, dovremmo impegnarci maggiormente per sviluppare gli aspetti creativi che il kumite ad alto livello impone.
Quale carica riveste all’interno della Federazione e cosa significa per lei tale ruolo?
Quella di consigliere della Federazione e Commissario Tecnico delle Nazionali di kumite e kata, dove ho la fortuna di collaborare con degli allenatori eccezionali per bravura e professionalità, come i Maestri Loris Guidetti e Elio Giacobini per il kumite, Silvio Campari per l’embu e fukugo e Pasquale Acri e Alessandro Cardinale per il kata. Questo ruolo mi carica di orgoglio e di responsabilità e mi induce a cercare di fare sempre del mio meglio per la crescita della federazione e di tutto il movimento del karate tradizionale.
Cosa le ha lasciato l’esperienza del campionato mondiale di Kuritiba in Brasile?
È stata un’esperienza assolutamente positiva e gratificante, per come tutta la squadra ha saputo vivere quei momenti insieme e in totale armonia, sapendo gioire con chi ha vinto e essere solidali con i meno fortunati. Questo è lo spirito del karate che apprezzo di più.
Come hanno affrontato i mondiali i nostri ragazzi? Quali atleti in particolare si sono distinti e hanno più che mai soddisfatto le sue aspettative?
Li hanno affrontati come un’avventura eccitante e costruttiva, consapevoli che rappresentavano l’Italia della Fikta, le loro regioni, i loro Maestri, con orgoglio e determinazione, non risparmiandosi mai. Un pensiero particolare va ai due ragazzi più giovani che sono tornati a casa con due medaglie d’oro: Marina Caffarelli e Fabio Cuscona.
Qual è la cosa più preziosa che le ha dato il karate?
La pratica mi ha fatto comprendere che l’allenamento quotidiano all’ascolto di ogni gesto, di ogni movimento, di ogni sensazione che il corpo comunica, aiuta a sviluppare la capacità di “sentire” in senso ampio, la capacità di connettersi con le proprie emozioni ed i propri sentimenti, imparando ad ascoltarli e a riconoscerli: il che è quanto meno un buon punto di partenza per lo sviluppo di rapporti profondi e proficui con le persone e col mondo circostante.