A 40 ANNI DAI MONDIALI DEL CAIRO: PARLANDO DI GARE
CON IL M° CARLO FUGAZZA
(Pregherei chi legge questa intervista di essere indulgente riguardo alla qualità delle domande e di considerarla come una specie di reportage di guerra: per rispondermi il M° Fugazza ha ritardato di dieci minuti l’inizio della lezione, attirando su di me l’ostilità dei compagni di corso. Ho seriamente rischiato di essere utilizzato come makiwara).
D: Carlo, che ricordi personali hai dei campionati mondiali del 1983 al Cairo?
R: Eravamo tecnicamente ai vertici dal lontano 1973, prima con Zoja e Capuana, poi con Marangoni e Ruffini, vincendo per più di un decennio i campionati europei e conquistando sempre il secondo posto dopo la squadra giapponese ai mondiali. Mantenersi a quei livelli riconfermando i successi anno dopo anno è sempre più difficile, ancor di più dopo sei anni di assenza [l’Italia aveva partecipato ai mondiali di Tokyo del 1977 ma non a quelli di Brema del 1980 per motivi di politica federale, N.d.R.], quindi aleggiava un po’ di tensione, ma ci diede anche una forte motivazione: volevamo con forza confermare il livello precedente, per il Maestro, la nostra Scuola, la Nazionale, per l’ambiente. Poi la finale a squadre con due spareggi e quindi il secondo posto contro la squadra del Belgio.
D: Pensi che i risultati abbiano rispecchiato i valori in campo e l’arbitraggio sia stato competente e imparziale?
R: Sostanzialmente sì, anche se devo dire con un eufemismo che non ci hanno certo reso la vita facile. Dopo le eliminatorie eravamo in finale a squadre e tutti esclusi nell’individuale, questo ci deluse ma ci spronò per dare il meglio nella finale a squadre, che arrivò nel tardo pomeriggio: primo il Giappone, secondi a pari merito Italia e Belgio. Dopo il primo spareggio ancora pari merito, al secondo spareggio vincemmo, fu una liberazione e una grande emozione. L’impressione fu che più ripetevamo il kata più si migliorava mentre i belgi calavano, e se ce ne fosse stato un altro l’avremmo fatto ancora meglio.
D: Qualcuno pensa che nella EAKF e nella IAKF di fronte ai giapponesi gli europei soffrissero di un complesso di inferiorità che non c’era nelle gare UEK e WUKO. Sei d’accordo?
R: In parte. Alla nostra prima esperienza nel 1973, la squadra giapponese era composta dai Maestri Oishi, Tanaka, HAiakawa, Iida, Osaka, Abe, Yahara. già maestri affermati della Jka con alle spalle una lunghissima esperienza agonistica, mentre gli europei si stavano affacciando alla ribalta internazionale, quindi può essere, almeno da parte mia, che un po’ di soggezione ci fosse, ma negli anni a venire, con l’elevarsi del livello tecnico, non ci fu più alcun complesso di inferiorità.
D: Pensi che sia stata una buona idea far partecipare ai campionati di Monaco e del Cairo atleti che provenivano dal karate sportivo?
R: Per quanto riguardava il kumite penso che agli allenatori interessasse selezionare e poi convocare i migliori atleti in quel momento, al di là dello stile e dell’appartenenza, creare una squadra omogenea, forte, compatta, e che potesse adattarsi ad un regolamento diverso da quello della Wuko. Ricordo Negri in un incontro memorabile con Yamamoto, poi giudicato il più bell’incontro del campionato, ricordo Guazzaroni perdere di misura in finale con lo stesso Yamamoto. Sì, penso sia stata una buona idea unire atleti di estrazione diversa ma con un obiettivo comune e un forte spirito di squadra. Nel kata invece non avevamo molti antagonisti, quindi la scelta della squadra fu abbastanza scontata.
D: Quali sono le difficoltà nel giudicare una gara di kata interstile?
R: In un campionato mondiale o europeo anche gli arbitri, come gli atleti, vengono selezionati dalle rispettive nazioni, quindi i tre o quattro arbitri per nazione sono i migliori per esperienza, correttezza e rettitudine. Penso che al di là dello stile i principi di valutazione dei kata (tecniche, spostamento del corpo, cambiamenti di direzione, continuità delle tecniche, tempo/ritmo, forza muscolare interna, applicazione delle tecniche, sincronizzazione, respirazione) siano comuni a tutti gli stili. Non dico che sia facile, ma l’esperienza aiuta.
D: Pensi che funzioni meglio il vecchio sistema a punteggi o il nuovo a bandierine utilizzato nella WKF?
R: Ma non c’è niente di nuovo nel sistema a bandierine utilizzato dalla WKF. La Jka dall’inizio della storia utilizzava già, come noi oggi utilizziamo nella Coppa Shotokan, il sistema a bandierine per le eliminatorie e il sistema a punteggio per le finali. Personalmente ritengo che questo mix sia un giusto compromesso fra gli estremi.
D: Che importanza ha avuto per te la tua lunga esperienza agonistica? La consigli a un giovane praticante?
R: Per quel che mi riguarda è stato un periodo entusiasmante di esperienze, di formazione, di crescita. Per come lo abbiamo vissuto noi era sempre come fare karate tradizionale: per preparare un campionato di kata si faceva un numero folle di kata, e per il kumite un numero folle di uchikomi [ripetizione di una stessa tecnica o combinazione, n.d.R.]. Il Maestro Shirai e il Maestro Kase ci ripetevano sempre: “Quando finirete di fare le gare inizierete a fare il vero karate”. Ci hanno insegnato che la pratica del karate è per tutta la vita, e sinceramente non vedevo l’ora. Detto questo, lo consiglio sicuramente ad un giovane praticante.
Pongo l’ultima domanda al Maestro Fugazza mentre ci stiamo già cambiando. Gli chiedo se si sente di fare due nomi, di indicare gli atleti italiani migliori di sempre nel kata, ben sapendo che si guarderà bene dal nominare se stesso.
Il maestro precisa che è molto difficile fare dei confronti fra un’epoca (la sua) in cui agli atleti veniva chiesto praticamente di fare tutto (kata individuale e a squadre, kumite individuale e a squadre e anche delle dimostrazioni nel corso di una gara) e il periodo successivo in cui era già cominciata la specializzazione. Messo alle strette tuttavia, ritiene che due nomi che è impossibile non fare siano quelli di Dario Marchini e Cristina Restelli.
Sergio Roedner Copyright Yoi 2013