Come accendere una lampadina
Severino Colombo, classe 1947, cintura nera 7° dan della Fikta si mette a nudo. Il suo amore per il karate sbocciato a prima vista, la prima lezione insieme alla moglie Piera Motta e l'incontro con il "grande" maestro Hiroshi Shirai. E il racconto di una vita per il karate.
di Federica Achilli
Se illuminare una stanza quando è buio è l'azione più naturale, il karate, per il maestro Severino Colombo, è stata come una folgorazione, o meglio, "come accendere una lampadina".
Sono passati ormai dodici anni dall'ultima intervista rilasciata a "Samurai", "Karate Story", dove si presentava: "Sono Severino Colombo, pratico da trent'anni e... spero di continuare per altri trenta".
E da quel momento sono passati 44 anni esatti.
Cintura nera a solo un anno e otto mesi dall'inizio della pratica, con quel "26" di punteggio totalizzato all'esame di cintura marrone 1° kyu nella palestra del "grande" maestro Hiroshi Shirai, con il karate che sarebbe diventato un compagno di vita, Severino Colombo, classe 1947, fondatore e caposcuola della Shotokan Ryu, inizia a praticare nel 1972, insegnando già dal 1974, divenendo maestro nel 1978 ed ottenendo il grado di 7° dan della Fikta nel 2012. Specialista nel kumite, diventato negli anni di pratica il suo punto di forza, ha formato diversi istruttori e maestri sotto la sua guida, così come ha sfornato diversi allievi che si sono guadagnati numerosi titoli nazionali, europei e mondiali.
"Per essere un bravo maestro - racconta Colombo - bisogna mettere in pratica quanto ci si è prefissi. Non è facile dire a un altro cosa fare, perché se l’allievo non capisce quale sia il compito di un maestro tutto si riduce ad uno scambio commerciale. Un banale dare o avere che nel karate è la cosa peggiore che esista. Il karate inteso come “via” è solo dare. Avere è naturale, poiché se mi alleno per migliorare è spontaneo che alla fine riesca anche a vincere la competizione. Chi invece si allena “solo per vincere” una gara è difficile che salga sul gradino più alto del podio. E se dovesse anche riuscirci non avrà mai trovato, questo è certo, la “via” del karate".
Ma il karate, raccontava in un’intervista rilasciata a Samurai nel 2005, le ha anche salvato la vita.
“Sì, indubbiamente, penso di essere qui a raccontarlo proprio perché pratico il karate. Anni fa ebbi un incidente in moto e credo che non ne sarei uscito vivo da quell’avvenimento se non avessi avuto i riflessi e la prontezza di reagire a un evento talmente inatteso come ritrovarsi di punto in bianco una macchina improvvisamente a una decina di metri da te. A circa 80 chilometri all’ora di velocità sono riuscito a girare la mia moto, che pesava due quintali e mezzo, evitando di fare un frontale, ma sbattendo “solo” lateralmente. Ne sono uscito con diverse fratture, seppure sono rimasto sempre lucido, ma alla fine ho potuto raccontare cosa mi era successo e sono ancora qui che pratico”.
Ma facciano un passo indietro, a quando, quel giorno di quasi 9 lustri fa, ha scoperto “l’esistenza” del karate, e “questo mi ha cambiato la vita”. Sono passati 44 anni da quel momento. “Erano poco più delle tre del pomeriggio - ricorda il maestro Colombo -. Il mio amico Gianni Guizzetti mi disse che praticava karate a Milano, al Centro Studi Karate Shotokan, il CSKS, dal maestro Hiroshi Shirai. E’ stato come accendere un interruttore, o meglio, come una lampadina, anche perché, nella mia testa, avevo già un’idea del genere. Poche ore dopo, verso le diciannove, rientrai a casa con Piera, mia moglie, e le dissi: “Voglio andare a fare karate”. E lei di getto mi rispose: “Anche io”. E così andammo a iscriverci nella palestra di Sesto San Giovanni, quella a noi più vicina perché non potevano fare avanti e indietro da Milano ogni giorno, dal maestro. Iniziammo a praticare quattro volte a settimana con lui, con grande e crescente passione. Gli altri tre giorni, poi, ci trovavamo a ripetere quello che avevamo imparato: se in palestra si studiava una parata o uno spostamento, a casa poi lo ripetevamo per due o tre ore. Facevamo allenamento nelle situazioni più diverse: sopra una carrozzeria, senza riscaldamento, usando come makiwara un pezzo di ferro. Ma ci siamo forgiati al karate. A quei tempi, infatti, non era sufficiente essere forte, ma dovevi essere il più forte e gli allenamenti erano estenuanti. La didattica e la tecnica non erano molto importanti, perché tutti gli sforzi si concentravano su forza e velocità e ogni combattimento, fosse dichiarato o libero, era una occasione per misurarsi con gli altri. Quando ti allenavi non ti chiedevi né il come né il perché e questo modo di fare karate ha creato delle macchine poderose: gente che non partecipava alle gare, ma che poteva vincere contro chiunque. Quelli ti distruggevano, punto e basta. Ma la vittoria, nella competizione di karate tradizionale, oggi sta nel superare se stessi. A quei tempi il karate si praticava solo come arte marziale: chi lo faceva doveva essere non solo forte, ma il più forte, infaticabile e senza paura e bambini e donne erano una rarità e comunque chi non fosse stato più che motivato al massimo arrivava a due mesi di pratica e poi smetteva. Era un karate molto duro. Cadere durante un combattimento era un disonore. Nessuno pensava che partecipare ad una gara equivalesse a fare un piacere a qualcuno, perché si partecipava per provare la propria forza, il proprio coraggio. Non esisteva la paura di farsi male o di perdere o di fare brutta figura, esisteva invece l’orgoglio di non cadere, di non subire. L’orgoglio di perdere in piedi. Adesso praticare karate e chi pratica questa arte marziale è diverso, ma “un” maestro sa comunque riconoscere facilmente chi si allena con questo spirito, chi si applica con umiltà e senza nascondersi dietro alle scuse. Questa è la strada per migliorare nel karate, per salire quei gradini, per aprire quelle finestre di cui molti parlano ma che pochi vedono perché è difficile arrivarvi quando il karate è fatto solo di parole o di esercizi di ginnastica. Credo, infatti, che la gara di karate tradizionale debba essere intesa come un importante momento di socializzazione che resta la componente essenziale della vita di tutti. Esempi classici sono i Giochi Primavera e il Trofeo Topolino, ora anche il Kenshin Bobo, dove migliaia di bambini si incontrano e fanno festa, indipendentemente dai risultati che ottengono, perché si divertono insieme”.
E da quel momento il karate è entrato a far parte della sua vita?
“Indubbiamente. Da quel giorno, per due anni, abbiamo fatto karate sette giorni su sette, poi abbiamo perso una settimana perché ci siamo sposati, ma da allora non abbiamo più smesso. Piera aveva diciassette anni, ora è maestro, ed è stata una delle prime donne a praticare il karate in Italia”.
Il primo incontro con il maestro Shirai, a uno stage, fu amore a prima vista.
“Un giorno l’amico Guizzetti mi disse che si era iscritto ad uno stage e io, incuriosito, gli chiesi cosa fosse. Mi rispose che era un allenamento preparatorio agli esami di passaggio di grado e che si sarebbe svolto a Milano proprio nella palestra del maestro. Gli stage allora duravano cinque giorni, dalle sei alle sette e mezzo del mattino e dalle diciassette alle diciotto e trenta dello stesso giorno. Piera prendeva le ferie e assieme a me faceva avanti e indietro tra casa e palestra. Ci presentammo agli esami di cintura marrone 1° kyu e in commissione c’erano i maestri Shirai, Kase, Sumi e Miura. Finita la mia prova il maestro Shirai, dopo avere parlato con il maestro Kase, mi chiese da quanto tempo facessi karate. Risposi che era da un anno e otto mesi e lui mi disse che venti mesi erano pochi per prendere la cintura nera, ma mi diede otto nei fondamentali, otto nel combattimento e dieci nel kata (Un punteggio di ventisei all’esame era una cosa eccezionale).
Ma c’è una giornata in particolare in cui praticare con Sensei Shirai è molto importante?
“Il mercoledì mattina è decisamente importante, ovvero, quando il maestro Shirai tiene il suo corso. Per arrivare puntuale alla lezione che iniziava alle sei, a Milano, mi sono sempre alzato verso le quattro di mattina. Ci sono allievi che arrivano dal sud Italia o addirittura dall’estero, alzandosi all’alba per venire a praticare con il maestro con regolarità. E ogni volta si impara qualcosa di nuovo, di diverso, scoprendo sfumature differenti”.
E dopo gare e stage in solitaria ecco l’idea della scuola.
“Lo scopo del karate è certamente la crescita dell’individuo ed io ho sempre ritenuto importante dare un supporto ai praticanti che volessero seguirne i corsi: questa è la funzione della “vera” scuola. È la scuola che dà qualità a quello che viene fatto. Io avevo una grande passione e quando fondai la mia scuola lo feci anche per aiutare quei ragazzi che avrebbero desiderato gareggiare, perché conoscevo bene le difficoltà che avrebbero dovuto affrontare altrimenti senza un sostegno e una guida alle spalle. Dopo l’inizio con il maestro Infine, andai all’Euroschool di Bergamo circa quattro anni, prima con il maestro Shirai poi con i maestri Fugazza e Naito. Quando divenni cintura nera, Sensei Shirai mi chiese di andare ad insegnare a Bergamo. Qualche giorno prima, però, mi avevano proposto di organizzare un corso a Monza. Per me insegnare voleva dire allenarsi di più e così accettai subito. Risposi al maestro che avevo già una proposta e lui mi permise di insegnare a Monza sotto la direzione tecnica del maestro Carlo Fugazza. Chiamai ad aiutarmi il mio amico Gianni Guizzetti e così iniziò l’avventura. Due anni dopo diventai istruttore e cominciai a fare gareggiare i primi allievi. Trascinati da un grande entusiasmo organizzammo la prima Coppa Città di Monza: era il 1976 e a questa prima edizione ne seguirono altre nove. Potevano parteciparvi solo le cinture nere: vennero alle gare ed alle manifestazioni quelli che adesso sono grandi atleti. È stato l’inizio del CSKS di Monza. I miei primi collaboratori furono Gianni Guizzetti, Giuseppe Troiano, Bruno Calzaretti e mia moglie Piera. Guizzetti, poi, si spostò a Cinisello e costituì la sua scuola. Troiano andò ad insegnare a Robbiate lasciando il suo posto a Vito Pazienza che nel frattempo era diventato cintura nera. Mi chiesero poi a Concorezzo di aprire dei corsi, perciò chiesi a Vito di assumere la direzione tecnica del CSKS di Monza in modo che io potessi spostarmi nelle palestre di Paderno d’Adda e Concorezzo, che divennero il CSKS Paderno e il New Center Concorezzo. A Paderno d’Adda, su richiesta del comune, aprii un corso per bambini, che affidai a Silvano Ronzullo. Dopo sei mesi dei venti bambini che avevano iniziato non ne rimase uno, perché la palestra era troppo fredda. Il Comune di Verderio Superiore mi concesse allora l’uso del porticato al centro sportivo. Antonella Brivio, suo zio ed alcuni amici mi aiutarono ad eseguire i lavori che dovevano renderlo idoneo alla pratica del karate, ma pochi mesi dopo ci chiesero indietro il locale. Eravamo daccapo. Poi il dottor Gigliotti mi parlò di una villa con un seminterrato: il locale era pieno di macerie, ma era anche grande a sufficienza per creare una palestra. Alla fine, io e Piera, decidemmo di comprarla per far fare karate ai bambini. A quel punto bisognava decidere un nome: scelsi Shotokan Ryu perché Shotokan è il nome del nostro stile e Ryu era inteso come “via”. La “via” del karate Shotokan. Fu Massimo Scandella, allora istruttore, che tramite un amico grafico propose il logo che abbiamo tuttora. Monza, Concorezzo e Paderno chiesero di potere adottare lo stesso nome scelto per Verderio. Manuela Pancaro, dopo avermi affiancato per tre anni, cominciò ad insegnare a Merate dove poi vennero trasferiti anche i corsi di Paderno”. E si arriva ai giorni nostri.
Maestro Colombo, quale è il suo obiettivo?
“Certamente è quello di dare a tutti la possibilità di fare karate. Un karate di uguale qualità, ma di quantità diversa, perché è giusto che un bambino rimanga un bambino e che un adulto possa fare karate senza dovere gareggiare”.
E sul sito dello Shotokan Ryu questo messaggio è scritto a chiare lettere: “L’obiettivo della scuola è che tramite il "mezzo", cioè lo studio del karate, tutti i praticanti, che siano bambini, adolescenti o adulti, possano migliorarsi, sia fisicamente che psichicamente, rendendoli delle persone libere e più coscienti delle proprie possibilità. Non è sufficiente iscriversi ad un corso e frequentarlo per ottenere il grado. Ogni allievo deve partecipare attivamente, cercando di dare il massimo in ogni momento dell’allenamento, dimostrando, così, di meritare il proprio livello. Questo facilita la crescita all’interno della scuola, elemento essenziale per rafforzarne la base. Così è stato ed è tuttora per la Shotokan Ryu: questo circolo virtuoso ha portato alla formazione di un folto gruppo di istruttori. Ogni istruttore ha la possibilità di partecipare attivamente alle attività della scuola e della FIKTA attraverso stage tecnici e gare che offrono occasioni di arricchimento e studio che vengono poi proposti agli allievi durante le ore di lezione. I primi istruttori sono stati allievi diretti del maestro Colombo, altri, sono stati iniziati al karate dagli istruttori della scuola”.
Oss!
Severino Colombo
asd.Shotokan Ryu - Il sito web -