Chi è Roberto Fassi? Cosa ci racconta di lei e della sua famiglia?
Sono nato nel 1935 e sono felicemente sposato con due figlie, tre nipotini e una nipotina. Dopo gli studi classici (latino, greco, filosofia) mi sono laureato in chimica industriale. Quando frequentavo il liceo ho iniziato a praticare le arti marziali e ho continuato a farlo per tutta la vita.
Dopo la laurea ho intrapreso una carriera tecnico-commerciale che mi ha permesso di viaggiare molto. Soprattutto in Italia, in Europa e negli Stati Uniti, infine, in tutto il mondo. Ho potuto così visitare varie volte i paesi legati alla nascita e allo sviluppo delle arti marziali come il Giappone e la Cina. Sono stato moltissime volte anche in India ove ho iniziato, purtroppo troppo tardi, la pratica dello Yoga (stile
Iyengar) che ritengo assai utile per tutti coloro che studiano arti marziali. L’energia interna (
ki) scorre facilmente nei muscoli allungati, mentre viene bloccata nei muscoli contratti. Innumerevoli sono poi i vantaggi di un corpo elastico, flessibile.
Non penso però che questo mio ritratto sia molto interessante per i karateka che non mi conoscono. Allora dirò solo che Roberto Fassi è colui che quarantotto anni fa ha invitato in Italia il Maestro Hiroshi Shirai.
Quali arti marziali ha praticato?
Desidero anzitutto mettere in evidenza che le arti marziali sono state il mio grande hobby, uno dei miei principali interessi, ma non la mia professione. Pertanto devo considerarmi solo un dilettante e non un professionista vero e proprio, anche se sono riuscito a praticare alcune arti marziali fino ai massimi livelli.
Ho cominciato col
ju jitsu, ma poco dopo sono passato al
judo che ho praticato per molti anni. Quindi, ho iniziato a studiare karate che ho poi integrato col
kobudo di Okinawa. Infine, ho studiato i due stili fondamentali di kung fu (
wu shu tradizionale):
shaolin ch’uan e
t’ai chi ch’uan. Considero però il karate la base delle mie conoscenze. Un mio allievo ha espresso molto bene il mio metodo di studio: “allargare a ventaglio ogni cosa affinché tutte le conoscenze convergano in un’unica Via”. Altrettanto valida è però l’altra Via, quella di concentrarsi a fondo su un’unica disciplina (una sola arte marziale nel nostro caso) che infine però dovrà espandersi a un livello superiore.
Com’è nato il suo interesse per le arti marziali?
Il mio interesse per le arti marziali è nato in maniera molto banale e credo abbastanza comune fra i praticanti. Avevo preso un po’ di botte a scuola e volevo restituirle. Confesso tuttavia di aver studiato svariate arti marziali per più di 60 anni, ma di non aver mai restituito le botte ricevute!
Inoltre, da bambino sognavo di diventare un guerriero: gli eroi dei miei sogni erano quelli dell’Iliade e dell’Odissea o i cavalieri della tavola rotonda e infine anche i samurai. Il mio eroe favorito è però sempre stato (e lo è ancor oggi), senza alcun dubbio, il divino Odisseo (Ulisse).
Quando e perché ha iniziato la pratica del karate?
Durante la seconda metà degli anni ‘50 praticavo judo col M° Tadashi Koike, inviato ufficiale del Kodokan in Italia, al Jigoro Kano di Milano e leggevo tutte le pubblicazioni di judo disponibili. Una di queste era
Revue Judo Kodokan, diretta dal M° Henri Plée. Su tale pubblicazione lo stesso Plée aveva scritto alcuni articoli che parlavano di un’arte marziale giapponese, da lui introdotta in Francia, i cui esperti erano considerati invincibili nel combattimento a mani nude: il karate per l’appunto. Lessi con grande interesse questi articoli e decisi di approfondire l’argomento malgrado circolasse la voce che la nuova arte marziale non fosse altro che un’invenzione o una trovata pubblicitaria di Plée. Per questo motivo a quei tempi i judoka francesi chiamavano quest’arte karaplée! Mi procurai anche dei filmati e tutti i rarissimi libri allora in circolazione. Iniziai poi ad allenarmi da solo… potete ben immaginare con quali risultati!
In seguito conobbi il M° Shoji Sugiyama (allievo di Minoru Mochizuki dello Yoseikan, un grande esperto di molte arti marziali), allora 5° dan di judo e 6° di aikido, che veniva talvolta invitato dal M° Koike a Milano per allenare i componenti della squadra agonistica di judo del Jigoro Kano. Ricordo ancor oggi il M° Sugiyama per la sua limpida tecnica, capacità didattica, vasta conoscenza e squisita gentilezza. Quando seppi che aveva aperto un corso di karate nella sua palestra di Torino mi precipitai da lui, ma scoprii che si trattava semplicemente di un corso di
atemi, integrativo alla pratica di judo e aikido, durante il quale si praticava una specie di kihon di karate. «Non posso insegnare karate – mi confermò lo stesso M° Sugiyama – perché non ho ancora ottenuto il titolo di istruttore». Frequentai diligentemente per alcuni mesi queste lezioni, ma infine decisi di abbeverarmi direttamente alla fonte europea e partii per Parigi.
Il M° Plée mi suggerì di frequentare tutti i suoi stage (estivi, invernali ecc.) e di seguire le lezioni nel suo dojo almeno un fine settimana ogni mese. Nel 1963, avendo raggiunto il grado di cintura marrone, iniziai anche a insegnare a Milano e in altre città lombarde.
Il M° Shirai è arrivato a Milano nel 1965 grazie a una lettera con cui lei ha espressamente richiesto alla JKA che venisse mandato in Italia un maestro di karate: che cosa ci racconta in proposito?
Nel 1965 il numero dei miei allievi, malgrado la durissima selezione che imponevo, superava ormai abbondantemente le cento unità e decisi allora di invitare un maestro giapponese. Ma chi? Chiesi consiglio al M° Plée che mi suggerì di contattare il capo istruttori della JKA, il M° Masatoshi Nakayama e poiché lo conosceva personalmente mi diede anche una lettera di presentazione da allegare alla mia richiesta. Il M° Nakayama mi rispose subito invitandomi a contattare quattro istruttori ufficiali della JKA che si trovavano per un breve periodo in Sud Africa. Si trattava dei Maestri Kase, Kanazawa, Enoeda e Shirai. I primi tre avevano già firmato dei contratti rispettivamente con le federazioni belga, inglese e tedesca, l’unico ancora libero era il ventottenne Hiroshi Shirai, 5° dan e campione del Giappone di kumite, il quale accettò con mia grande gioia l’invito. Il M° Shirai mi confessò poi che era rimasto a lungo titubante se accettare oppure no, perché gli sarebbe anche piaciuto raggiungere il suo M° Hidetaka Nishiyama e insegnare con lui negli Stati Uniti, ma che aveva infine deciso di rimanere in Italia perché gli era piaciuta la mia lettera di invito. Non ho mai avuto il coraggio di confessargli che quella lettera l’aveva in realtà scritta mia moglie!
In quegli anni, quale era il livello di pratica e di diffusione delle arti marziali e, in particolar modo, del karate in Italia?
Solo il judo era abbastanza diffuso con un discreto livello tecnico e operante nell’ambito di un’organizzazione ufficiale. Molte arti marziali oggi popolari, come per esempio il kung fu, erano allora praticamente sconosciute. Per quanto riguarda il karate, esistevano dei gruppi di praticanti spesso scollegati fra loro e con un livello tecnico ancora scarso. Da parte mia presi contatto con due gruppi di karate, quelli di Genova (Parisi, Ottaggio, Sasso) e di Bologna (Baleotti, Perlati, Balzarro) che operavano in maniera simile a quella del nostro gruppo di Milano e ne condividevano gli ideali. Questi tre gruppi formeranno la base dell’organizzazione del M° Shirai in Italia.
Il suo primo incontro con il M° Shirai in Italia nel 1965 dove è avvenuto? Che cosa si ricorda con più emozione di quel momento?
I quattro Maestri giapponesi, Kase, Kanazawa, Enoeda e Shirai, dovevano arrivare alla Stazione Centrale di Milano provenienti da Roma. Ci fu un malinteso sull’orario e poiché a quel tempo non esistevano i cellulari, attesi con alcuni allievi per ore alla stazione. Gli allievi stanchi volevano andarsene, ma io decisi di non muovermi e di passare se necessario tutta la notte in attesa. Infine, la mia pazienza fu premiata quando vidi, su una panchina che si trovava verso la coda dell’ultimo treno proveniente da Roma, un individuo che eseguiva degli spettacolari calci al di sopra delle teste degli ignari viaggiatori. “Eccoli finalmente!” esclamai. Chi si era esibito era l’esuberante Enoeda che evidentemente aveva bisogno di un po’ di esercizio. Due giorni dopo, in fretta e furia, organizzai una dimostrazione nella sala secondaria del Palalido. Alcune centinaia di persone assistettero in quell’occasione alla più formidabile esibizione di karate che abbia mai avuto occasione di vedere. I quattro maestri si scatenarono letteralmente e per circa due ore fecero tutto da soli suscitando un incredibile entusiasmo fra i presenti. Ricordo in particolare un furibondo kumite che si svolse in parte fra le sedie degli attoniti spettatori! Con quella dimostrazione possiamo proprio dire che l’alba del karate italiano era terminata. Cominciava il giorno illuminato dall’astro nascente di Hiroshi Shirai. Era l’inizio di novembre del 1965.
In quale palestra ha iniziato a insegnare il M° Shirai?
Il Maestro ha incominciato a insegnare nella palestra nella quale io seguivo i corsi di Judo (che abbandonai dopo il suo arrivo) e in cui avevo insegnato, prima del suo arrivo, i rudimenti di karate agli allievi: il Judo Club Jigoro Kano di Via Solari, Milano.
Come si svolgevano le lezioni? Che cosa si ricorda dei suoi primi allenamenti con il M° Shirai?
Le lezioni normali erano piuttosto dure, ma anche molto tecniche. I primi corsi istruttori erano invece durissimi, si praticava quasi solo kumite con un controllo abbastanza approssimativo. Il Maestro, evidentemente, voleva avere anzitutto dei forti combattenti come istruttori, la tecnica raffinata sarebbe venuta dopo! Ricordo ancora adesso il primo kumite col M° Shirai. Subito dopo il saluto mi beccai un
mae geri che mi tolse il fiato, seguito da un
mawashi geri e da un pugno. Mentre crollavo a terra pensai “Ma non bisognerebbe controllare?”. Mentre ancora stordito mi rialzavo mi dissi “Il Maestro vuole vedere il mio spirito”… E incominciai a combattere sul serio!
Parlerò ora di un allenamento col Maestro che, anche se non è stato uno dei primi, certamente è stato il più duro di tutti. Un giorno eravamo soli in palestra e il Maestro mi propose, con mio grande piacere, di praticare insieme, ma non sapevo cosa mi aspettava. Dopo circa mezz’ora di normale allenamento mi disse: «Ora facciamo cento Bassai Dai». Si noti bene non disse “fai cento Bassai Dai”, ma “
facciamo cento Bassai Dai”! Ricordo che alla trentesima ripetizione del kata pensai “Non arriverò mai a cento!”. Ebbi un lieve cedimento, ma fui riscosso dalla sua voce: «Ancora! Ancora, più forte!». Dopo piombai in una specie di
trance, con dei crolli improvvisi, ed ebbi la consapevolezza di tante mie debolezze, soprattutto mentali. Il mio corpo andava avanti, ma la mia mente diceva “Basta, basta, non ce la faccio più…”. E in quei momenti udivo la voce del Maestro che mi riscuoteva: «Più forte, ancora, avanti, più forte!». Quel giorno imparai davvero moltissime cose.
Tra i compagni di allenamento incontrati nel suo percorso di karateka, chi ha il piacere di ricordare oggi?
Non desidero fare nomi, perché non vorrei correre il rischio di dimenticare involontariamente qualcuno.
Si è dedicato anche all’agonismo?
Sì, parlando di karate ho fatto parecchie gare, alcuni miei allievi sono stati anche campioni e hanno fatto parte della Nazionale. Inoltre, sono stato arbitro in due campionati mondiali (Los Angeles e Tokyo). Nel kung fu sono stato varie volte responsabile della Nazionale e ho anche vinto un campionato mondiale di forme senza armi. E questo grazie alla mia esperienza di karate. Comunque il M° Chang, il mio maestro di kung fu (come d’altra parte il M° Kase), dava poca importanza all’aspetto agonistico, diceva di considerarlo come un gioco o al massimo un utile esercizio. L’importante era sempre fare del proprio meglio.
Approfitto di questa domanda per esprimere la mia personale opinione sulla pratica agonistica. Faccio notare anzitutto che nessuno dei più grandi Maestri di karate (Nishiyama, Kase, Nakayama…) ha mai partecipato a una competizione. L’agonismo non sembra pertanto essere un elemento indispensabile per diventare un esperto di karate.
Comunque, io credo che l’agonismo da un lato sia una pratica utile, ma dall’altro sia nociva per le arti marziali tradizionali. Utile perché lo stimolo della competizione e del confronto con gli altri permette di compiere notevoli progressi. Nociva perché oggi la pratica agonistica sta assumendo un’importanza eccessiva con effetti spesso deleteri.
In cosa consistono questi effetti deleteri?
Secondo me il karate deve essere considerato soprattutto un’arte marziale tradizionale e non un moderno sport agonistico. Cosa c’è di meno tradizionale di un moderno campionato?
L’effetto deleterio di un eccessivo agonismo consiste nel fatto che la tecnica e lo spirito sono assai diversi nelle due forme di karate. Primo scopo del moderno karate agonistico è quello di vincere la competizione e pertanto nelle gare di kumite l’elemento essenziale è l’attacco. Di solito i contendenti non si preoccupano di parare gli attacchi e il regolamento proibisce in ogni caso di “affondare”. Abbondano quindi gli
ai uchi, ossia le tecniche portate a segno contemporaneamente dai due contendenti. Scopo del karate marziale tradizionale è invece quello di vincere se stessi e in caso di combattimento vero non perdere la propria vita. Le tecniche di difesa assumono pertanto un’importanza capitale, anche perché si presuppone che tutte le tecniche di attacco dell’avversario siano mortali.
Karate ni sente nashi, nel karate non bisogna attaccare per primi, è una massima di cui pochi praticanti comprendono l’importanza.
Nel karate marziale tradizionale i kata sono la base fondamentale della tecnica, in essi sono nascosti tutti i segreti che ci sono stati tramandati dagli antichi Maestri. Nel karate agonistico, invece, i kata sono del tutto inutili ai fini dell’efficacia nella competizione di kumite. Infatti, le tecniche e le strategie insegnate dagli antichi kata non hanno niente a che vedere con quelle utilizzate nelle moderne gare. I kata vengono allora studiati soprattutto per prepararsi alla gara di forme, in cui si tende a privilegiare lo studio e l’esibizione del kata più spettacolare (per ottenere il maggior punteggio possibile) e non di quello più adatto alla propria personalità. Come conseguenza spesso gli atleti agonisti si specializzano o nei kata o nel combattimento libero, una cosa inconcepibile nel karate marziale tradizionale in cui non vi è differenza fra kata e kumite.
Nel karate sportivo si impara a combattere contro un solo avversario disarmato in condizioni ambientali (luce, pavimento…) ideali. Nel karate marziale si deve invece imparare a combattere per la vita anche contro numerosi avversari, che possono essere armati, in qualsiasi condizione (al buio, su un terreno scivoloso…). Le tecniche più pericolose, che sono di solito le più efficaci in un combattimento vero, sono proibite dal regolamento e pertanto il loro studio viene trascurato nel karate sportivo agonistico.
Nel karate agonistico le differenze di stile tendono a sparire, mentre invece esse si accentuano nel karate marziale tradizionale, in cui ogni Maestro di grado elevato tende a dare risalto alla propria concezione dell’arte di combattere.
Molte altre sono le differenze fra karate marziale tradizionale e karate sportivo agonistico, ma sarebbe troppo lungo elencarle e analizzarle in questa sede.
Vorrei però dire che ritengo importantissima la nuova arte di difesa, il Goshindo, messa a punto dal M° Shirai che, almeno secondo me, ben controbilancia la “smania” agonistica e in cui viene, per così dire, riscoperta l’importanza di alcuni antichi insegnamenti.
Vuole raccontare ancora qualcosa a proposito di agonismo?
Desidero raccontare una storia autentica. Una sera di molti anni fa invitai a cena nella mia abitazione il M° Masatoshi Nakayama che stava visitando l’Europa. Il M° Shirai si era dovuto assentare, non rammento per quale motivo, e mi aveva pertanto pregato, con mia grande gioia, di occuparmi personalmente del famoso Maestro giapponese che ricordo per la sua impeccabile tecnica, la sua cortesia e affabilità. Terminata l’ottima cena preparata da mia moglie, al secondo bicchierino di Passito di Pantelleria (che gli piaceva moltissimo) il M° Nakayama mi disse: “
Devo confessarti una cosa. Si tratta dell’unica cosa che in questo mondo mi tormenta. Temo che lo spirito di Gichin Funakoshi sia arrabbiato con me perché dopo la sua morte ho favorito, insieme ad altri maestri, il karate agonistico mentre lui era contrario. Ma io l’ho fatto a fin di bene, perché volevo fare col karate quello che Jigoro Kano aveva fatto col judo trasformandolo in uno sport popolare”. Ho usato il corsivo perché queste sono state proprio le parole del grande Maestro giapponese. Poiché non desideravo che la cena finisse tristemente, cercando di consolarlo, continuai a servirgli il Passito di Pantelleria. Ma a un certo punto sbagliai mira e il vino, invece che nel bicchiere, finì sui pantaloni del Maestro che sorpreso balzò in piedi. Mi sprofondai in scuse, ma il disastro era ormai fatto ed egli per togliermi d’imbarazzo scoppiò in una risata. E così terminò allegramente la nostra serata.
C’è un evento particolare (campionato/dimostrazione/stage) di cui si ricorda ancora oggi con emozione?
Poco dopo il suo arrivo il M° Shirai mi disse che voleva fare a tutti l’esame e che io avrei dovuto sostenere quello di cintura nera. Ci presentammo sicuri di superare la prova e fummo tutti non solo bocciati, ma anche retrocessi. Consolai dapprima gli altri afflitti e sconcertati allievi. Dissi poi dentro di me “Adesso veramente conosco il mio livello e non mi farò bocciare un’altra volta!” Così in un tempo relativamente breve arrivai al 3° dan!
Ricordo con particolare emozione la promozione a 5° dan, solo in due fummo promossi: Baleotti e io.
Vorrei poi raccontare un episodio che riguarda il M° Kase e che ancor oggi mi emoziona. Dopo aver terminato il suo contratto con la federazione belga il Maestro fu ospitato per alcuni mesi a Milano dal M° Shirai, che mi chiese di cercare di trovare una sistemazione per il grande Maestro giapponese. Era l’anno 1967. Condussi il M° Kase in Francia per presentarlo al mio amico Plée che organizzò subito uno stage e infine lo assunse come direttore tecnico della sua palestra. Ricordo che durante lo stage, dopo un duro allenamento (eravamo in piena estate) andammo a dissetarci in una birreria insieme a un gruppo di istruttori e di cinture nere francesi. Davanti a degli invitanti calici di birra il Maestro ci spiegò che praticando il karate a livello elevato si può arrivare a intuire le intenzioni dell’avversario, si può captare la sensazione di pericolo perché si acquisisce una sensibilità particolare, una specie di sesto senso, che l’uomo moderno ha ormai perduto. Io fungevo da interprete, mentre il Maestro, parlando ai francesi, mi voltava le spalle. Io allora pensai “Tutto ciò sarà anche vero, ma io adesso potrei facilmente dare una bastonata o rompere questa bottiglia di birra in testa al maestro!”. Proprio mentre stavo formulando questo pensiero il M° Kase si voltò verso di me dicendomi: «Fassi perché vuoi attaccarmi? Potrei facilmente parare e ucciderti!». Rimasi come fulminato e dimenticai di tradurre questa frase ai francesi.
Si è dedicato anche all’insegnamento del karate?
Mi sono molto dedicato all’insegnamento anche dopo l’arrivo del M° Shirai, ma avevo dei validi istruttori, miei allievi, che mi sostituivano durante le mie frequenti assenze per motivi di lavoro.
Nel suo percorso di karateka, c’è un aneddoto che vorrebbe raccontare?
Più che un aneddoto questa è una confessione! Durante una delle prime dimostrazioni al Palalido di Milano, il M° Shirai decise di esibirsi nella tradizionale rottura delle tavolette. Mi ricordo che si procurò tre tavolette robustissime e di notevole spessore che decise di rompere con un solo pugno. Mi sembrava un’impresa impossibile. Il Maestro mi affidò le tavolette dicendomi solo che non dovevano assolutamente bagnarsi.
Purtroppo, nevicava e le tavolette si bagnarono. Le asciugai alla meglio, ma non osai aprir bocca sulla mia deplorevole disattenzione. Al momento dell’esibizione il Maestro disse a me e a un altro karateka di tenere ben ferme le tavolette sovrapposte. Ricordo ancora benissimo il primo fortissimo pugno del Maestro e il sordo TOC delle tavolette intatte. Dopo un inutile secondo pugno, seguito dall’immancabile TOC, il maestro si accanì stoicamente ferendosi la mano e fra colpi di pugno, sordi TOC, spruzzi di sangue e gocce di gelido sudore (il mio) la prima tavoletta infine cedette. Feci cadere anche le altre due come se tutte fossero state rotte. Il pubblico scoppiò in applausi e io coraggiosamente feci finta di niente… Ricordo ancor oggi i profondi incavi che le nocche del Maestro avevano provocato colpendo ripetutamente la prima tavoletta!
Come si è sviluppato, successivamente alla pratica del karate, il suo percorso nel settore delle arti marziali?
Non possiamo parlare di successivamente in quanto non ho mai abbandonato la pratica del karate. Ancora oggi, pur essendo anziano e invalido (ho una malattia rara e incurabile), pratico qualche esercizio. E recentemente ho fatto una lezione per cinture nere e istruttori di karate della durata di circa due ore e mezzo.
Quando praticavo ancora solo karate ho iniziato lo studio del
kobudo (la via delle arti marziali antiche) di Okinawa con il M° Toshio Tamano che avevo conosciuto a New York. Tamano era un Maestro di karate
Goju ryu di Okinawa, allievo di Seikichi Toguchi, che a sua volta aveva studiato con Chojun Miyagi (il fondatore dello stile
goju ryu). Per quanto riguarda il
kobudo, il M° Tamano aveva appreso le basi di questa disciplina dal suo Maestro di karate Toguchi e poi si era specializzato con due grandi Maestri di Okinawa, Shimpo Matayshi ed Eisuke Akamine.
La pratica con le armi è sempre stata considerata integrativa alla pratica a mani nude, sia negli stili cinesi che in quelli di Okinawa, ma fu trascurata quando il karate fu diffuso in Giappone. Col karate a mani nude noi trasformiamo ogni parte del corpo umano in un’arma, ma col
kobudo (che possiamo anche definire
karate con le armi) impariamo a utilizzare ogni oggetto della vita di tutti i giorni come un’arma.
Faccio presente inoltre che in alcuni kata di karate esistono delle difese contro avversari armati che presuppongono la conoscenza del
kobudo. Ricordo che il M° Kase in Giappone mi fece notare come alcuni istruttori giapponesi avevano modificato il kata
jitte, o lo applicavano erroneamente, perché privi di queste conoscenze e in particolare di quelle che riguardavano l’uso del bastone lungo.
Grazie al M° Tamano ho potuto anche gustare in loco il karate di Okinawa e soggiornare in un tempio buddista ove ho potuto praticare la meditazione Zen.
A quale arte marziale, in particolare, si è dedicato dopo la pratica del karate?
L’ultima arte marziale a cui mi sono dedicato è stata il kung fu. Questa espressione cinese significa lavoro, esercizio eseguito bene, con abilità ed è sinonimo di
wu shu che vuol dire arti o tecniche marziali. È importante mettere in evidenza che il maoismo ha dapprima proibito in Cina la pratica delle arti marziali tradizionali e le ha poi modificate profondamente creando quello che possiamo chiamare il moderno
wu shu, che è ben diverso da quello tradizionale. Io ho ovviamente studiato il
wu shu tradizionale.
Che cosa l’ha affascinata e motivata sin dall’inizio nel seguire questa nuova strada?
Nel 1976 il M° Perlati mi parlò di un anziano maestro cinese da poco arrivato a Bologna che conosceva vari stili di kung fu. Si trattava del M° Chang Dsu Yao, un militare in pensione emigrato in Italia. In Cina egli era un colonnello dell’esercito e a Taiwan capo istruttore di arti marziali delle forze armate e della polizia. Dopo averlo incontrato mi resi conto che si trattava di un’autentica enciclopedia delle arti marziali tradizionali, uno dei pochissimi maestri cinesi di
wu shu tradizionale ancora viventi. Invitai il M° Chang a insegnare a Milano e decisi di aiutarlo a diffondere il suo kung fu affinché le sue conoscenze non andassero perdute. Fra di esse volevo ricercare le origini del karate che ritrovai nello
shaolin ch’uan, il principale stile esterno di kung fu. Una grande e affascinante scoperta è stato anche il
t’ai chi ch’uan, il più importante stile interno di kung fu. Trattasi di una raffinata arte di autodifesa che non utilizza forza muscolare, di una ginnastica morbida per la salute e di una forma di meditazione dinamica, eseguita col corpo in lento movimento.
Faccio notare che i numerosi stili delle arti marziali tradizionali cinesi sono stati suddivisi in due grandi gruppi: gli stili esterni e quelli interni. I primi sono stati chiamati così perché mettono in evidenza delle caratteristiche esteriori come la velocità e la potenza. Negli stili interni si attribuisce invece maggior importanza alle caratteristiche interiori, come per esempio il fluire di energia interna guidata dal pensiero intenzionale.
Si è dedicato anche all’insegnamento e alla diffusione di tale arte? In quale modo?
Ho insegnato il kung fu non solo in Italia, ma anche in alcuni paesi esteri, cercando di diffonderlo con stage, dimostrazioni, articoli e libri (per lo più scritti in collaborazione col M° Chang).
Quali sono i più grandi benefici che le sono derivati e le derivano dalla pratica di tale arte?
Il più grande beneficio è secondo me la ricerca della salute, che possiamo ottenere soprattutto praticando gli stili interni, come il
t’ai chi ch’uan. Il M° Chang Dsu Yao mi ripeteva spesso: “Tu studi un’arte di difesa, ma come puoi difenderti efficacemente se non stai bene?”. Grazie alla pratica degli stili esterni e in particolare dello
shaolin ch’uan (vero e proprio progenitore del karate) possiamo poi comprendere il significato di molte posizioni e tecniche di karate. Farò un solo semplicissimo esempio: la posizione iniziale e quella finale del kata
jion è il tradizionale saluto in piedi degli stili cinesi, che viene eseguito all’inizio e alla fine di ogni esercizio. La posizione delle mani rappresenta l’unione armoniosa fra la luna (la mano aperta) e il sole (la mano chiusa), l’unità di
yin (simbolo dell’ombra, della morbidezza e della flessibilità) con
yang (simbolo della luce, della durezza e della rigidità).
Le arti marziali cinesi sono poi ricchissime non solo di colpi (pugno, palmo, piede…), come il karate, ma anche di tecniche di presa (leve, prese e immobilizzazioni con pressioni su punti vitali, strangolamenti ecc.), di cadute e di proiezioni. Lo studio di un gran numero di armi (bastoni lunghi e corti, bastoni snodati, sciabole, spade, lancia, alabarda ecc.) con numerosissime forme ed esercizi di combattimento completa il vastissimo programma.
Recentemente ha avuto occasione di incontrare, dopo tanti anni, il M° Shirai: può descriverci quello che ha provato in quel momento?
In realtà avevo già incontrato il M° Shirai nel 2010, a una cena commemorativa del campionato mondiale di Los Angeles del 1975. Ricordo che allora ho provato una grande gioia per aver avuto la possibilità di rivedere il mio Maestro e di poter passare un po’ di tempo con lui. La stessa gioia che ho provato durante la sua recente visita. I miei sentimenti per il Maestro non sono mai cambiati, sono sempre quelli di riconoscenza e affetto.
Nonostante il tempo trascorso, che cosa Le è rimasto di essenziale dalla pratica del karate con il maestro Shirai?
Posso solo dire che considero il M° Shirai colui che ha veramente forgiato il mio corpo e il mio spirito e di questo gli sarò sempre grato.
Dopo una vita di pratica, studio e approfondimento dell’arte marziale cui si è dedicato successivamente al karate, quale importante insegnamento avrebbe il piacere oggi di condividere con i praticanti di karate tradizionale nonché nostri lettori?
Potrei parlare per ore passando dall’importanza della tecnica respiratoria, all’utilizzo delle tre energie interiori e delle due forze, esterna ed interna. Potrei spiegare l’importanza di eseguire ogni tecnica, non solo con il corpo, ma anche con la mente e il cuore. Potrei parlare del ruolo della mente nella guida dell’energia… Ho spiegato alcuni di questi argomenti e altri in un libro che ho scritto con alcuni collaboratori che è stato recentemente pubblicato da Città Nuova Editrice col titolo
Corpo e Preghiera: la via del Tai Chi Chuan.
Per i praticanti di karate leggerò solo una poesia scritta da un antico Maestro cinese che mette bene in evidenza come deve muoversi il nostro corpo durante l’esecuzione delle tecniche:
In movimento devi essere come un’onda del mare,
ma quando sei fermo diventa una montagna.
Vai su e salta come una scimmia,
piomba giù come un uccello.
In equilibrio su una gamba sii come una gru,
ma rimani sempre stabile come un pino.
Gira come una ruota,
e muoviti sinuosamente, flessibile come un arco.
Devi essere leggero come una foglia,
ma anche pesante come il ferro.
Sii lento come un falcone che plana,
ma anche veloce come il vento.
Yumi Shirai
Video intervista rilasciata il 12 mar 2014