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Centro Sport e Cultura Venezia
Intervista al Maestro Bruno Demichelis
di Sergio Roedner
Bruno Demichelis: evoluzione di un guerriero
Dal tatami di via Bezzecca alla Mind Room del Chelsea


In questa esauriente intervista telefonica il maestro Bruno Demichelis, pioniere del karate e indomito campione negli anni 70, ora assistant coach di Carlo Ancelotti e responsabile della preparazione psico-fisica della squadra di calcio del Chelsea, rievoca il suo debutto nel mondo del karate, dice la sua sull’evoluzione delle arti marziali nel nostro Paese e parla della sua attuale, prestigiosa professione. Dedichiamo l’intervista ai lettori più giovani di Karate-Do, che hanno forse solo sentito parlare di lui e del suo gyakuzuki, ma anche ai “veterani” della mia generazione che l’hanno visto combattere alla pari coi mostri sacri della JKA sul parquet del Palalido.

- Vuoi parlarci delle radici del tuo interesse per il karate?
Tutto è nato all’inizio degli anni 60. Avevo 14 anni e dopo aver assistito a  una dimostrazione mi sono unito a un gruppo un po’ sciamannato che si allenava al Lido di Venezia sotto la guida di Luciano Padoan, che era una cintura blu e faceva riferimento a Campolmi e Piccini, due toscani rispettivamente 1° e 2° dan che seguivano l’insegnamento del Maestro Murakami, che aveva la sua base a Parigi. Puoi immaginare il livello del nostro gruppo: Padoan sapeva sì e no 3 o 4 kata, ma io ero affascinato dalla cultura orientale, dalla meditazione zen, dalla teoria del ki. Ricercavo una crescita interiore che, mi è stato detto, sarebbe arrivata dopo la preparazione fisica. Purtroppo le cose non sono andate esattamente così…

- Come avvenne il tuo incontro col M° Shirai?
Credo che a farmelo conoscere sia stato Franco Mescola, ora esperto di Tai Chi e autore di un bellissimo libro fresco di stampa, Il metodo Biospirali. Lui andò ad uno stage sul lago di Garda nel 1965 o nel 1966, vide in azione Shirai e me ne parlò. Io, come si usava allora, chiesi il permesso al Maestro Murakami e iniziai a fare il pendolare, due volte alla settimana, da Venezia al CSKS di  via Bezzecca. In poco tempo diventai primo e poi secondo Dan e Padoan, che era stato il mio primo maestro, diventò e rimase poi mio allievo.

- Mi puoi parlare del tuo interesse per l’agonismo e della prima gara importante che hai disputato?
Mi sono interessato all’agonismo perché era strettamente collegato con la disciplina che praticavo, e in particolar modo col kumite, che per me è stato importante perché era legato alla mia indole di combattente. Del kata inizialmente apprezzavo di più l’applicazione; l’interesse per la gestualità è subentrato in seguito, a differenza con quanto è successo con altre due altri arti marziali che ho praticato, il Kendo (fino a 1°dan) e lo Iai-do, dei quali ho apprezzato immediatamente i kata.
Per quanto riguarda la mia prima gara, ricordo che, ancora cintura blu, vinsi a Livorno un campionato italiano juniores e una gara a squadre pomposamente denominata “Gran Trofeo delle Regioni”. Me lo rammento anche perché, in quell’occasione, spaccai un braccio al maestro Murakami. Venne a fare uno stage e invitò tutti noi – ragazzotti sui sedici anni e cinture verdi – a tirargli una serie di maegeri, per dimostrare il gedan barai. Si spaccò l’ulna e il radio ma continuò a combattere fino alla fine con un braccio dietro alla schiena: fu un esempio per me molto significativo e indimenticabile di marzialità.

- Quali sono stati in seguito i tuoi successi più importanti?
TanakaSono stato due volte campione europeo di kumite individuale nel 1974 e nel 1975 e due volte vice-campione del mondo, nel 1971 e nel 1977  a Tokyo. Dopo quei mondiali ho avuto la sensazione che si fosse concluso un ciclo e ho abbandonato l’agonismo senza rimpianti. Per noi la gara non era troppo importante, l’agonismo era un fatto di marketing, un momento di disseminazione del nostro karate.

- Come mai hai deciso di insegnare a tua volta?
Fu un fatto pressoché automatico: io ero un allievo desideroso di apprendere mentre gli altri erano restii a spostarsi. Io mi dissi: “Voglio andare dove si impara”. Sono tornato da Milano con la conoscenza dei kata superiori, ero l’unico a saperli, non c’è stato niente da decidere. Va anche detto che mi è sempre piaciuto l’aspetto formativo ed educativo, tant’è vero che in seguito, abbandonato il karate, ho insegnato nei corsi di perfezionamento di Psicologia dello Sport all’Università di Siena.

- Quali erano i tuoi rapporti col maestro Shirai?
Di reciproca stima e rispetto, ma oserei dire anche di amicizia. Come definire altrimenti una serata passata insieme su una roulotte a Villasimius a mangiare formaggio e bere grappa? Credo di essere tra i pochi ad averlo capito a fondo nei suoi valori, nelle sue credenze e riflessioni. In cambio ho avuto anch’io il suo rispetto, d’altra parte ero ormai un padre di famiglia con tre figli. Non ero un tipo da “Oss Oss” e basta, e il maestro l’ha capito. Credo che l’errore della nostra generazione sia stato quello di non esser riusciti a trasformare il rapporto maestro-allievo da rapporto padre-figlio a rapporto fra adulti.
A questo proposito vorrei anticipare la tua domanda e dirti il mio parere sull’unificazione Fik-Fesika del 1978 e sulle ragioni del suo fallimento. Lo scopo dello scioglimento e della fusione era per noi uno solo: entrare nel CONI e di conseguenze essere ammessi alle Olimpiadi. L’operazione fu gestita con la mentalità del “cavallo di Troia”: ci uniamo sulla carta ma poi continuiamo a fare il nostro karate e puntiamo a “conquistare” la nuova federazione dall’interno. Io ero di parere diverso, dicevo: attenzione, non dobbiamo essere ipocriti. O facciamo un ente morale, sul modello dell’Aikikai e di quello che è poi diventato l’Istituto Shotokan Italia, oppure si cambia, ma non solo sulla carta. La preparazione atletica va fatta secondo criteri metodologici moderni, senza cercare di portare lo spirito dei samurai dentro al Coni. Mi ricordo a questo proposito uno stage della nazionale a Nervi, in pieno agosto. Per sei o sette giorni, 3 o 4 ore al giorno, abbiamo ripetuto la stessa sequenza di 36 movimenti. L’obiettivo dichiarato era quello di ridurre di 30 secondi il tempo impiegato a completare la sequenza. È un metodo di allenamento che va bene per dei kamikaze, per dei disadattati sociali com’era la maggior parte di noi, ma che non si può mantenere se si vuole praticare una disciplina sportiva riconosciuta dal CONI: bisogna accettare i consigli degli esperti. Ed eravamo noi italiani, allora già quinti dan, a dover prendere in mano la cosa: lui (il maestro Shirai) non poteva e non doveva cambiare. È stato un errore proporre lui come presidente della Commissione Tecnica, Shirai avrebbe dovuto fare il consulente e mantenere l’ISI come baluardo della tradizione. D’altra parte, anche prima di unificarci con la FIK, all’interno della Fesika noi avevamo il professor Niveo Luridiana, che era il vice-presidente della Federazione medico-sportiva italiana.
Fece uno studio sulle atlopatie specifiche da sport e arrivò alla conclusione che un certo modo di praticare, posizioni basse, retroversione del bacino ecc,  poteva produrre danni seri: non fu ascoltato, fu cacciato.

- Come e quando nacquero il tuo interesse per la Dinamica mentale e l’idea di introdurre la D.M. nel corso Istruttori della Fesika?
All’inizio degli anni 70 ero molto interessato all’aspetto mentale della pratica e  alle tecniche di meditazione, anche quelle occidentali. Ho seguito un seminario di Dinamica Mentale dove si proponevano tecniche di rilassamento e focalizzazione che mi hanno molto interessato, le ho applicate su di me e ho visto che funzionavano, quindi le ho proposte ai miei allievi e ad altri. Da qui l’idea di introdurre la materia anche nel corso istruttori della Fesika. Io credo che l’aspetto psicologico sia importante nella pratica e nell’insegnamento, soprattutto nelle discipline di combattimento. Cosa sono certi sedicenti maestri se non degli psicopatici o addirittura degli psicotici? Per chi insegna karate dovrebbero essere obbligatori dei corsi di psicologia e di didattica. Le discipline di combattimento hanno a che fare con i meccanismi di sopravvivenza, toccano emozioni, frustrazioni…Invece c’è chi, con scarsissima preparazione culturale, ha addirittura la presunzione di insegnare il “do”, cioè una via, un modo di vivere!

- Si raccontano strane storie su uno stage di Bergamo del 1978…
Ho capito, è la famosa storia degli schiaffoni agli istruttori, che però non ha niente a che fare con la Dinamica Mentale. Lo stage di Bergamo era il momento finale del corso istruttori, che prevedeva degli esami, teorici e pratici, e un’intervista finale. Mi ricordo che ero in compagnia di Franchi (il dottor Franchi, ex-segretario generale della Fesika, tragicamente scomparso) e stavo leggendo gli elaborati dei candidati, tutti uguali, pieni di risposte pappagallesche.
Cos’è il karate? Come si risponde alla violenza? E tutti a scrivere che non bisogna reagire alla violenza con la violenza. Ho cominciato a chiedere ai vari candidati: “E cosa fai allora se uno ti tira uno schiaffo?”. Le risposte continuavano a non convincermi, così lo schiaffo l’ho tirato veramente. E poi un altro…il bello era che le interviste avvenivano in un ufficio con le pareti a vetrate, così chi era fuori vedeva i candidati dentro presi a ceffoni!
A un certo punto uno ha fatto per prendere un bastone ma gli ho fatto capire che non era il caso…il metodo era forse un po’ brutale, ma lo scopo era quello di obbligare la gente a dire quello che pensava veramente, non a ripetere a pappagallo la solita lezione imparata a memoria. Ma la Dinamica Mentale era altra cosa…

- Quando e perché hai smesso di praticare il karate?
Nel 1980, non perché identificassi il karate con l’agonismo, ma semplicemente perché non mi interessava più la pratica. Non ero e non sono convinto che le arti marziali siano un sistema integrato: l’aspetto fisico e tecnico è molto curato, non altrettanto quello spirituale. Non mi interessava diventare un kamikaze, quindi ho smesso.

- Tra i compagni di allenamento chi ricordi con particolare simpatia?
Tutti quelli con cui ho condiviso fatiche, gioie, sofferenze e botte, ma uno in particolare, Franco Mescola, uno dei miei più cari amici. Lo conosco da 50 anni e ha fatto da testimone alle mie nozze, alle quali tra l’altro è arrivato in ritardo!

Luciano- Tra i tuoi allievi chi ricordi con maggior stima e affetto?
Puricelli, Boffelli, ma è difficile scegliere, non ce n’è uno di cui potrei dire male. Eravamo un gruppo legato dalla tenacia, dalla lealtà, dalla voglia di lavorare e dalla sollecitudine per il bene reciproco.

- Secondo te qual è la ragione per cui il karate ha perso parte della sua presa sulle nuove generazioni?
Per una molteplicità di ragioni. Anzitutto si è persa la testimonianza di un gruppo di pionieri: chi farebbe adesso i sacrifici ai quali eravamo disposti noi allora? Si è trattato di un momento magico, nato dall’incontro con un uomo motivato, eccitato, evoluto nella conoscenza della sua disciplina, pieno di carisma e di magnetismo, che ha richiamato intorno a sé persone simili a lui. Era un periodo di dimostrazioni per tutta l’Italia, il livello emotivo era altissima, la mission, la vision, l’identità e i comportamenti del gruppo erano estremamente chiari. Dopo di lui non ci sono stati altri Maestri Shirai né giapponesi né italiani che guidassero col loro esempio – noi eravamo allo stesso tempo allievi, atleti, agonisti, arbitri e organizzatori.

- In che modo il karate ti ha aiutato nella vita di tutti i giorni? Saresti un uomo diverso se non l’avessi mai praticato?
Sarei un ingrato se negassi che il karate mi ha insegnato la tenacia e la perseveranza, senza le quali non avrei raggiunti gli obiettivi che ho raggiunto. Probabilmente ci sarei arrivato anche seguendo un’altra strada, ma la mia è stata quella, e non rinnego niente di quanto ho fatto in quegli anni.

 -Di che cosa si sei occupato una volta interrotta la pratica, e di che cosa ti occupi attualmente?
Sono psicologo dello sport, e attualmente rivesto per il secondo anno la carica di Human Performance Director e di First Team Assistant Coach presso il Chelsea, dopo essere stato per 22 anni coordinatore scientifico del Milan Lab, dove non mi sono occupato solamente di calcio, ma anche di altri sport tra i quali il ciclismo, curando la preparazione di atleti d’èlite. In precedenza avevo diretto i corsi di perfezionamento di Psicologia dello Sport all’Università di Siena.
Quando si parla di psicologia applicata allo sport, uno pensa subito ai colloqui e alla psicoterapia, ma quello che facciamo noi è qualcosa di molto più complesso. Un esempio del mio lavoro è la Mind Room, un programma di prevenzione e  promozione del benessere che ho elaborato quando ero preparatore del Milan, ma che può essere applicato anche fuori dall’ambito sportivo, per la gestione produttiva dello stress individuale, l’allenamento delle abilità sociali e vari interventi cognitivo-comportamentali, finalizzati  ad accrescere l’autostima e migliorare la comunicazione interpersonale e intrapsichica.

Per chiarire il concetto espresso dal M° Demichelis, un esempio di applicazione sportiva della Mind Room può essere quello riportato in un articolo del Telegraph:
Didier Drogba è seduto su una poltrona reclinabile del centro di allenamento del Chelsea e si guarda in  un video mentre sbaglia una facile occasione da gol. È attaccato a una macchina che monitorizza il suo stato psicologico e i suoi livelli di stress. Naturalmente i suoi muscoli si contraggono e la pressione del sangue sale mentre vede la palla schizzare oltre la traversa a Stamford Bridge (…). Come quando era al Milan, lo scopo di Demichelis è di allenare gli atleti a raggiungere uno stato meditativo nel quale possono guardarsi mentre compiono un errore – un’occasione perduta, un tackle sbagliato, un rigore tirato male – senza provocare un’accelerazione del battito cardiaco. (…) L’idea è che quando poi il giocatore scenderà in campo e gli si offrirà un’occasione per segnare, sarà così concentrato e mentalmente preparato da non fallire. Allo stesso tempo, il giocatore sarà stato allenato tanto bene da Demichelis da riuscire ad abbassare il battito cardiaco quando non deve correre, in modo da conservare energia. E sarà anche capace di farlo senza bisogno di pensare.”

Mi congedo da Bruno con un brivido di angoscia al pensiero della prossima bolletta telefonica ma soprattutto con il rimpianto di non avere, non dico esaurito, ma neppure eroso la montagna di ricordi, di provocazioni e di idee con le quali mi ha inondato in oltre 90 minuti il colosso di San Marco. Posso solo aggiungere, in tutta sincerità, che non rimpiansi allora e non rimpiango neppure adesso di non aver sostenuto l’esame del corso istruttori in quel fatidico agosto in quel di Bergamo: non so se avrei superato la “prova ceffoni”…
Sergio Roedner

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