Credo che li si debbano definire "Shirai boys". Sono infatti i
ragazzi di Hiroshi Shirai, maestro giapponese di karate, nono
dan. Sì, giapponese e Spartaco Bertoletti ama chiamarlo
il "grande giallo". Ma lui si sente italiano, visto
che vive nel nostro Paese da 37 anni, e infatti alla domanda "perché
il Coni non ci riconosce? " risponde, con un filo di amarezza:
"
Non lo so, eppure
siamo italiani e combattiamo per l'Italia e quando i nostri ragazzi
vincono mi commuovo. Nel 1979 quando abbiamo fatto la finale del
Campionato del Mondo, a Tokio contro il Giappone, e io allenavo
la squadra italiana, ho pianto. In Italia funziona così:
figli e figliastri. E noi con i nostri mezzi andiamo avanti. Siamo
poveri ma forti".
Gli "Shirai boys" disciplinati,
ordinati, attenti si sono radunati, martedì 12 novembre,
a Casale Monferrato per un avvenimento che non esito a definire
epocale: un meeting, fortemente voluto dal Comitato regionale
piemontese della Fikta, dal titolo "Il
mio karate" nel quale il maestro ha raccontato se
stesso, la sua storia, la filosofia che lo muove e che caratterizza
il suo insegnamento. Era la prima volta che Hiroshi Shirai parlava
in pubblico e non voglio indagare sul perché l'abbia fatto:
è la vicenda in sé che interessa, che incuriosisce,
che stimola, che avvince. Sì, non voglio indagare sul perché.
Ma una cosa la penso: Hiroshi Shirai non riesce a esprimersi perfettamente
in italiano, che tuttavia capisce. Una volta, durante una delle
due interviste che mi ha concesso - una a Ferrara durante il Trofeo
Topolino, l'altra a Milano, nella sua palestra mi disse che sovente
pensa in inglese.
Bene, forse ha voluto parlare davanti ai suoi
ragazzi per dimostrare che la lingua non è una barriera,
né un freno, che si può anche parlare a settecento
persone, oltre che infonder loro la conoscenza attraverso la gestualità
quotidiana del karate inteso come arte e filosofia.
Gli organizzatori avevano scelto il salone
Tartara, in piazza Castello, ma le richieste di esserci si sono
rivelate così numerose che è stato necessario trasferire
il tutto nel cinema Vittoria, che gli "Shirai boys"
hanno riempito, sopra e sotto, galleria e platea. L'uomo, casualmente
mio coetaneo entrambi 65 anni, ha un carisma intatto e mi accadde
di scrivere che il carisma non si acquisisce, non lo si acquista:
ci si nasce.
Gli "Shirai boys" sono i bambini
del Trofeo Topolino e uomini e donne di tutte le età. La
platea era in buona parte in giacca e cravatta ma lui, il maestro,
si è presentato in tuta. informale e assai lontano dalla
ritualità che ci si sarebbe aspettati. E quella era la
prima chiave di lettura: "Sono un uomo normale. uno fra tanti,
disponibile, attento, curioso, e con una volontà immortale
di farvi partecipi di quel che so e conosco".
Io non soffro di ammirazione preconcetta ma
quando li ho visti tutti in piedi ad applaudirlo, in attesa che
parlasse, che raccontasse, che dicesse ho provato un brivido.
Sì, Hiroshi Shirai è un grand'uomo.
Ha cominciato la sua serata raccontando di
sentirsi felice: " Perché
da diciotto mesi non potevo calciare: ora ci riesco perfettamente".
Ma "Il mio karate" doveva e poteva essere soprattutto
la storia di un uomo. E storia fu.
Racconta quindi che nel 1954, mentre frequentava
il secondo anno della scuola superiore, vide un film Karate-do
che lo impressionò fortemente per la qualità e la
serietà degli allenamenti che vi erano illustrati e per
le dimostrazioni sulla difesa personale. "Ne fui conquistato"
e comprese che il karate avrebbe avuto un posto nella sua vita.
Due anni più tardi si iscrisse all'Università
di Tokio e " mi informarono
che iniziava il corso di karate. Mi ci iscrissi e quel che vidi
mi spaventò. Era un impegno durissimo due ore di lavoro
al giorno ma dopo una settimana al pasto della paura c'era la
consapevolezza ".
Nell'estate di quell'anno vide per la prima
volta il maestro Hidetaka Nishiyama
che aveva un sogno: creare una squadra forte, anzi fortissima.
Il primo anno fu duro, il secondo durissimo,
fino all'ossessione: ripetere, ripetere, ripetere. "Il kumite
mi ha rafforzato. Si il kumite e tanti kata, come li facciamo
noi adesso. E ho assistito al Campionato giapponese. Il 1957 fu
l'anno chiave per farmi diventare quel che sono oggi. Ma ero ancora
cintura bianca. E salire era molto arduo: c'era da percorrere
una strada cosparsa di difficoltà. "Eravamo solidi,
grossi e forti. Ricordo uno stage estivo che ancora oggi non so
come ho fatto a superare. Tre ore al mattino, terrificanti: passa
un'ora e dici: Ne mancano solo due. Ne trascorre un'altra e ti
consoli: "Ne manca solo una. Ma è un'ora eterna. "Abbiamo
acquisito enormi esperienze. E ho imparato a non cadere mai. 0
meglio: a provarci: avanti, avanti, avanti. Praticavo il karate
ma studiavo: "Prima di tutto
sei studente". Avanti, avanti, avanti. Studiare, studiare,
studiare. "A settembre ero cintura marrone. E il maestro
Nishiyama mi diceva: "Fra tre
mesi sarai cintura nera". Divento cintura nera e sono
felice perché non ci credevo. E perché mi hanno
insegnato tante cose.
Mi hanno insegnato che la violenza non può
avere cittadinanza nel karate. A maggio abbiamo cominciato a preparare
il Campionato giapponese e quando il maestro Nishiyama ha visto
entrare i suoi sette ragazzi ha pianto: "Finalmente ho la
mia squadra. Eravamo una squadra e abbiamo vinto".
Nel '59 il maestro Nishiyama parla di un corso
per istruttori. "L'anno dopo ho cominciato a fare karate
sul serio. Avevo capito che era la mia vita. Sì, facevo
karate dalla mattina alla sera ".
Nel 1965 il maestro Taiji Kase forma una squadra
per girare il Mondo. Un mese negli Stati Uniti e poi l'incontro
fatale col maestro Roberto Fassi che lo convince a venire in Italia.
Dopo la storia è il tempo delle domande
e delle risposte. Spiega che può fare karate grazie al
kimé, la forza d'impatto: "Ecco, saper realizzare
la forza d'impatto: è qui il karate, sia che l'obiettivo
sia un avversario, sia che si tratti di un gesto". Che il
karate non è sport olimpico perché non è
ancora pronto e perché sono state sbagliate molte cose
nell'organizzare le richieste. Che il karate tradizionale vive
con la mente e con la ricerca costante dell'equilibrio. Che il
kata che di più lo ha impegnato è il sochin: "Durissimo".
Che bisogna fare sia kata che kumite. Che è sbagliato disertare
la palestra se fa male una gamba "perché si può
lavorare anche stando seduti". Che è necessario allenarsi
sempre, senza smettere mai. Che "qualcuno è con me
da trentenni e ciò mi dà una soddisfazione enorme".
Che "qui in Italia vi sono insegnanti più avanti di
me mentalmente e anche tecnicamente".
C'è un velato rimprovero per Dino Contarelli
e Beppe Perlati: Io sbaglio spesso ma loro non me lo fanno mai
notare. Eppure io sono aperto e so ascoltare". Racconta di
aver praticato atletica, rugby e baseball e che chi possiede queste
basi ha un vantaggio sugli altri. Che "dal 1956 a oggi non
mi è mai mancata la consapevolezza: non posso più
avere, a 65 anni, la velocità di una volta. Ma la consapevolezza
sì, la forza sì".
Ammonisce gli insegnanti: "Badate
che i vostri allievi non escano dalla direzione corretta e che
tutto il corpo vada nella direzione corretta, senza dispersioni".
"Mi chiedete come può il karate farci vivere meglio?
Quando la corrente di un fiume ci porta via io so che ci si può
aggrappare da qualche parte, se se ne ha la voglia e il coraggio.
Do sempre questo consiglio: aggrappatevi ". Ha raccontato
se stesso con umiltà, senza nostalgie. E con umiltà
ha fatto capire che non dobbiamo mai aspettarci dei miracoli.
Prima che "Il mio karate" iniziasse è venuto
a salutarmi: "E' passato molto tempo dall'ultima volta".
E ne sembrava sinceramente rammaricato. Alla fine sono andato
io a stringergli la mano e a salutarlo. Mi ha guardato sorridendo:
"Lei sa molte cose di noi". lo non pratico il karate,
mi limito a camminare per le strade delle città. Sono un
uomo curioso che cerca di capire. E nell'ambiente del karate sono
accolto con rispetto e con la buona educazione che distingue quel
mondo. Ma senza simpatia, perché in fondo sono un estraneo.
Ma con Hiroshi Shirai è diverso, perché capisce
che alla fine io seguo il suo precetto essenziale: "Prova
a non cadere mai. Ma se cadi rialzati".
Nella intensa serata piemontese mi è
parso di aver capito che gli "Shirai boys" si aspettassero
il racconto di eroismi e mirabilia. Ma lui ha raccontato la vita
normale di un uomo normale che fatica e si impegna. E che Hidetaka
Nishiyama pianse quando vide che gli era riuscito di costruire
una compagine di sette giovani indomiti. Ecco, gli "Shirai
boys" volevano le avventure di un eroe e lui gli ha fornito
la genesi di una, squadra. Cercavano risposte che li confortassero
nella fiducia infrangibile che col karate si vive meglio, che
col karate si vincono le battaglie. E lui gli ha detto che è
il coraggio che ci aiuta a uscire dal tunnel.
E' stato grande.