Una nave in porto è al sicuro
Ma le navi non sono state costruite peer restare nei porti
( Benazir Bhutto )
Intervista a cuore aperto al maestro Giuseppe Perlati,il decano del karate tradizionale, che ha dedicato, e continua a farlo, anima e corpo nel lungo cammino della “via”. E alla base di tutto ci deve essere l’amore che il maestro ha per i propri allievi
Ha dedicato anima e corpo al karate,quel tradizionale di cui conosce ognis egreto e che lo spinge, giorno dopo giorno, a rimettere sul piatto della bilancia ciò che ha assorbito e continua ad assorbire direttamente dagli insegnamenti del maestro Hiroshi Shirai, una guida in un cammino tortuoso che lo ha portato a indossare i panni e la cintura nera 8° dan insieme ai maestri Carlo Fugazza e Bernardo Contarelli. Il karate lo ha conquistato, ma lui ha conquistato questa antica arte marziale che, seppure non proprio giovane, ha ancora molto da raccontarci. E lo fa a modo suo,un modo unico e originale. Un maestro a tutto tondo, un’opera d’arte che ogni allievo vorrebbe poter custodire come il suo tesoro più prezioso.
Maestro, quando ha cominciato a praticare karate? Un breve excursus della sua carriera.
“Ho iniziato nell’autunno del 1964 nella storica palestra di arti marziali Kodokan Club di Bologna sotto la guida del maestro Bruno Baleotti. Devo aggiungere che il vero approccio col karate l’ho avuto nella primavera del1966, qualche mese dopo l’arrivo in Italia del maestro Hiroshi Shirai, maestro che, da quel momento, non ho più lasciato. La mia carriera è semplice. Ho fatto tutto quello che c’era da fare, con un impegno totale.“Sono stato agonista fino ai 35 anni, arbitro europeo e mondiale della Wuko, dirigente periferico e nazionale, della Fesika, della Fikteda, della Fitak, e sono tutt’ora dirigente della Fikta. Sostanzialmente comunque quasi tutto il mio tempo e le mie energie le ho dedicate agli allenamenti col mio maestro e con i miei allievi del Musokan di Bologna”
Ci parli un po’ di sé?
“La mia formazione scolastica è avvenuta nel mitico Istituto Aldini Valeriani di Bologna. E’ stata una scelta casuale, dettata più dalle opportunità che i diplomati di quell’Istituto avevano per trovare facilmente un lavoro. Sono stato fortunato perché in quella scuola ho imparato molto e tutto mi è servito in futuro. Comunque è il karate che mi ha completamente cambiato, fisicamente, mentalmente e spiritualmente. Se non avessi incontrato il karate, il maestro Baleotti e, soprattutto, il maestro Shirai, con ogni probabilità avrei intrapreso una brutta strada”.
E’ il karate che l’ha conquistata o è lei che ha conquistato il karate? Il suo rapporto con“la via della mano vuota”.
“All’inizio è il karate che mi ha conquistato ma, col tempo, dopo decine di anni, lentamente, avverto che sto conquistando il karate.
Sarà una presunzione o una illusione e probabilmente non mi sarà possibile, ma credo che questa sia la corretta visione della ‘via della mano vuota’”.
Il karate del 2012 è uguale a quello che si praticava negli anni ‘70? Cosa c’è di nuovo e cosa invece è rimasto immutato da allora?
“Il karate che pratichiamo nella Fikta oggi è molto migliorato rispetto a quello praticato negli anni ‘70, sia dal punto di vista della tecnica, più fine ed efficace, sia per la maturità mentale e spirituale. Occorre tenere presente che sono partito da zero e che non sapevo nulla ma ero spinto da un sogno che mi ha portato lontano anni luce da quel periodo”.
Raggiungere il grado di cintura nera 8° dan è il sogno di tanti, ma è un privilegio per pochi. Cosa ha significato per lei ricevere proprio dalle mani di sensei Hiroshi Shirai questo importante riconoscimento?
“Dopo il 1° e il 2° dan (ero giovane) non mi sono più interessato ai dan, convinto, come sono, che deve essere il maestro a indicarti quando sei pronto per il passaggio di grado.
“Così è stato in tutti questi anni.
Purtroppo nella mentalità moderna se non ‘hai’ non ‘sei’quindi diventa quasi necessario fregiarsi di riconoscimenti di vario tipo, a volte del tutto immeritati. Oggi, purtroppo, l’assegnazione dei dan è diventato un mercato nel quale organizzazioni di fama internazionale richiedono anche migliaia di euro per la registrazione del grado. Per quanto riguarda l’ottavo dan, conosco il mio livello e, secondo me, sapere questo è già di per sé un buon livello. Sono convinto che, mentre la gara è un confronto con gli altri, il grado sia una questione individuale e che ognuno debba rendere conto, soprattutto a se stesso, del grado che ha, senza confrontarsi con altri perché ognuno ha la sua storia e ciascuno è diverso. Nella ricerca dello sviluppo personale attraverso il karate, il dan può rappresentare una trappola.
Come nell’agonismo un atleta non rifiuta mai il punto non meritato ma protesta quando non gli viene assegnato ciò che crede di avere ottenuto, così c’è chi piange perché non gli viene conferito un dan oppure,avendolo, si lamenta perché lo stesso grado è stato assegnato a qualcuno che, secondo lui,non lo merita. “Tornando al mio grado è indescrivibile la sensazione provata nel riceverlo dalle mani del maestro Shirai ma per me è stato molto più significativo il suo sguardo perché lui sa, sa anche che io so.“Commovente è stato anche il coinvolgimento dei miei amici, Carlo e Dino, e di tutti i tecnici presenti: indimenticabile!”.
Il karate e i ragazzi. Come era allora e come è adesso il rapporto fra il karate e i giovani praticanti? Di conseguenza, come è il rapporto fra il maestro e il suo allievo?
“Inizialmente insegnavo per imitazione: ciò che mi veniva insegnato lo riportavo tale e quale. Col tempo ho imparato a fare miei i principi che mi venivano indicati per poi trasmetterli, attraverso la pratica, adattandoli al livello e alle circostanze. Alla base di tutto comunque c’è l’amore che il maestro deve avere per i propri allievi altrimenti de ve smettere di insegnare”.
L’importanza dell’agonismo per i giovani?.
“L’agonismo per i giovani è molto importante perché rappresenta un momento di verifica del proprio livello e perché è nella natura dei giovani volere mettersi alla prova e confrontarsi.“Però anche l’agonismo può essere una trappola.
Dare più importanza al premio ottenuto piuttosto che all’allenamento effettuato per arrivare a un risultato può fare dimenticare che la gara è un mezzo e non il fine”.
Come spiegare, in poche parole, la frase: “il karate si pratica tutta la vita”? E’ ancora presente negli allievi e nei praticanti questo profondo concetto?
“Spetta ai maestri fare si che negli allievi sia ben presente questo concetto. La frase è, per me, più chiara se si aggiunge la parola ‘
durante’:‘
il karate si pratica durante tutta la vita’. Ciò significa che non basta il tempo trascorso ma che è importante quello che si è fatto ‘durante’. L’ideale sarebbe praticarlo sempre, in ogni istante, in ogni attività”.
Come vede il futuro del karate in Italia anche alla luce dell’evoluzione dei rapporti frale diverse realtà associative o federali?
“Non sono in grado di rispondere. Quello che posso affermare di certo è che nella Fikta e nell’Isi proseguiremo il lavoro che ci ha indicato il maestro Shirai, soprattutto nei principi del budo”.
Giuseppe Perlati