Mi è stato chiesto di parlare delle sensazioni provate a seguito del cambiamento dell’insegnante di karate, avvenuto ormai da qualche mese a questa parte, ed intendo iniziare questa sorta di soliloquio con una riflessione di carattere generico, per trarre delle conclusioni che trovino origine da dei limpidi punti di partenza.
È caratteristica intrinseca delle arti marziali – e forse uno dei punti focali che ne determinano maggiormente il fascino- lo stretto e al contempo complesso rapporto che si instaura tra l’insegnante e l’allievo. Basta pensare al carattere cinese che designa il secondo: un bambino, protetto da un tetto.
Siamo infatti abbastanza avvezzi a scontrarci con un immaginario comune, che associa l’arte marziale (nel nostro caso il karate) con il famoso spezzone cinematografico del “metti la cera e togli la cera”: una ragionevole associazione al concetto di sacrificio volto a un miglioramento individuale (dell’allievo ovviamente), illuminato dalla guida di un Maestro, che per divenire tale ha già percorso la medesima via.
Tale rapporto non può essere però meramente considerato come uno sterile scambio di nozioni tra individui: il punto focale del legame Maestro-allievo che ne contraddistingue la levatura morale, risiede proprio nella sua complessità di carattere non solo fisico ma anche –se non essenzialmente- spirituale.
Dove trova però origine la forza di un percorso così difficile e colmo di sacrificio?
La risposta non è per nulla scontata, anche se credo che un’opzione plausibilmente condivisibile sia la parola fede. La fede non da intendersi –secondo la tradizione occidentale- come totale accettazione di una dottrina con un conseguente abbandono della ragione, ma –rifacendomi alle parole di Shopenhauer- la fede come l’amore: un qualcosa che non si può ottenere con la forza.
Ed è proprio l’amore dell’allievo nei confronti del Maestro la condizione necessaria e conseguente all’accrescimento di tale relazione. Ma la fiducia non può essere unidirezionale: come il Maestro pretende dall’allievo un totale impegno, così l’allievo possiede la completa consapevolezza di ricevere dal Maestro una preparazione volta al miglioramento di entrambi, quindi senza riserve.
Ho già ripetuto che questo percorso è particolarmente difficile e gravoso, soprattutto perché la strada è duplice: ogni risultato fisico raggiunto, dev’essere coadiuvato da un altrettanto esito spirituale. In questo senso si parla di arte e non di semplice sport.
Allora spirito potrebbe essere considerata come una seconda parola chiave.
La volontà di accrescere quest’ultimo -già indice di altezza morale- è un progetto molto ambizioso e duro, perché significa voler estendere il proprio sapere, la propria conoscenza. Con la conoscenza infatti cresce il dubbio, la necessità di trovare delle giustificazioni, così come l’accettazione di un maggior numero di responsabilità.
Ma in fondo cosa sarebbe un uomo se non fosse sorretto dal desiderio di superare i limiti e comprendere questioni a lui celate?
Non posso allora esimermi dal menzionare uno dei miei “testi guida”, Il gabbiano Jonathan Livingston: è giusto che un gabbiano voli essendo nato per la libertà, e che è suo dovere lasciar perdere e scavalcare tutto ciò che intralcia, che si oppone alla sua libertà, vuoi superstizioni, vuoi antiche abitudini, vuoi qualsiasi altra forma di schiavitù.
Alla luce di ciò il Maestro può essere concepito come un “trampolino di lancio” su cui l’allievo prenderà la rincorsa per poi tuffarsi nello sterminato mare della vita.
Indubbiamente tra le due personalità che donano vita a questa connessione si viene a intensificare anche l’amore: in fondo siamo uomini, degli animali sociali.
E cosi tutte le tecniche, i respiri, i movimenti di testa braccia, occhi, non possono essere riconducibili all’esito di un arido processo di meccanizzazione: come per la scrittura, si tratta della riuscita di uno sviluppo dettato dall’affetto.
E questa è indubbiamente la terza parola chiave: affetto.
Potrei sintetizzare questo termine semplicemente con delle immagini:
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È la voglia di andare in palestra anche quando fuori piove e c’è acqua alta;
- E' il sapere di trascorrere un’ora felice, anche se magari per la maggior parte del tempo escogiti come farla pagare al tuo Maestro che ti sta facendo fare infinite serie di addominali;
- E' il camminare per le calli vestita di bianco;
- E' il vedere orde di bambini che sembrano fatti in serie coi loro karategi che profumano di ammorbidente;
- E' far cadere l’intonaco con un maegeri;
- E'il cercar di capire qualcuno che ti parla in veneziano (difficilissimo!);
- E' la chiacchierata brevissima all’uscita della palestra sulla giornata in università;
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E' il saltare a spalle di qualcuno per evitare l’acqua mentre si raggiunge una pizzeria;
- E' tornare a casa con qualche botta sulle braccia;
- E' la difficoltà di un padre nel trattenere la commozione quando la sua bambina fa un kata;
- E' la quotidiana certezza di aver guadagnato tutto sul campo in prima persona;
- E' la consapevolezza che avere pazienza porta al raggiungimento di una splendida felicità;
- E' il mettere i piedi sul tatami e sapere che lui sarà sempre li ad aspettarti:
lui, il tuo Maestro.
Francesca Ziglioli