«Oriente ed occidente sono molto lontani, ma possono essere anche molto vicini. Certi concetti orientali, se sono accettati senza spirito critico, rimangono in superficie. Perché siano interiorizzati occorre che vengano appresi, elaborati e “digeriti” dalla nostra mentalità, tradizione e cultura: solo in questo modo potranno andare in profondità e diventeranno parte dalla nostra personalità.
Dopo oltre 40 anni di pratica, è opportuno verificare se siamo sulla stessa lunghezza d’onda.Questa rubrica ha lo scopo ambizioso di realizzare un collegamento diretto con i praticanti di karate, creando un’occasione di dialogo, di confronto e di verifica delle interpretazioni dei principi del karate-do e del budo, tenendo sempre presente che vale di più una goccia di pratica di un oceano di teoria».
Buon giorno Maestro.Mi chiamo Piero. Pratico e insegno Karate da diversi anni. Mi rivolgo a lei per un consiglio sul metodo migliore da applicare nell’insegnamento del Karate ai bambini. Da un po’ di anni a questa parte, mi trovo di fronte a un problema di comunicazione e di coinvolgimento nella pratica per quanto riguarda i bambini. Anche se cerco di usare un linguaggio semplice e di utilizzare, nei limiti del possibile, esempi a loro vicini, mi rendo conto che faccio fatica a farmi capire! La qual cosa negli anni passati non mi capitava. È successo anche a Lei un problema simile? La ringrazio dell’attenzione e aspetto un suo consiglio.
Piero Paglialunga
Caro Piero,
la comunicazione, il linguaggio e il rapporto tra le diverse generazioni diventano sempre più difficili e complessi. Non sono un esperto in comunicazione, pertanto provo a illustrare alcune mie con-siderazioni nella speranza che qualche psicologo, pedagogista o studioso della materia, intervenga esprimendo il proprio parere, così come i maestri, per aprire un dibattito costruttivo.Innanzitutto sappiamo che nei primi anni di vita, dal primo giorno e forse anche durante la gestazione, l’essere umano incamera nel proprio cervel-lo una moltitudine di dati che lo condizioneranno per tutta la vita.
Possiamo fare, per comodità, il paragone con il computer: abbiamo l’hardware, che nell’essere umano può corrispondere alle po-tenzialità ereditate, e il software che in sostanza è il “programma”; le risposte del computer, così come quelle dell’essere umano, saranno sempre relative al software e all’hardware.Ovviamente, è un paragone limitato, perché l’essere umano possiede anche una volontà e uno spirito (anima, cuore), che fa l’enorme di∀erenza, ma non si può prescindere dall’aspetto materiale, essendo anche una macchina complessa dal punto di vista chimico, elettrico, energetico e altro.
I conflitti generazionali sono sempre esistiti, ma oggi dobbiamo prendere atto di un aspetto particolare che riguarda la di℀coltà di comunica-re utilizzando lo stesso linguaggio. È un aspetto che mi è stato illustrato da diversi operatori nel campo dell’infanzia e dell’adolescenza (scuola, chiesa, sport ecc.). L’impressione costante è di parlare lingue diverse. La spiegazione che mi sono dato è che si sono modificati in modo sostanziale i modelli di pro-grammazione del “software” dei primi anni di vita e che le modifiche di tali modelli avvengono in tempi sempre più brevi e in modo esponenziale.
Se facciamo un passo indietro, a prima dell’avvento del cinema e della televisione, nei primi tre anni di vita un essere umano aveva intorno a sé dei “modelli reali”, che portavano a un imprinting uniforme rispetto agli altri soggetti che vivevano vicino a lui e nel mondo circostante.
I genitori, i parenti, gli amici, le altre persone erano, da questo punto di vista, simili e la comunicazione avveniva attraverso un linguaggio condiviso. Voglio dire che potevano nascere anche contrasti molto forti, ma che il confronto e lo scontro erano attuati e percepiti sullo stesso piano.
Anche i modelli erano simili, sia all’interno della famiglia sia all’esterno, e l’imprinting avveniva in forma condivisa con la comunità.
Un esempio classico che viene riportato da noi “anziani” è quello che non potevi lamentarti in casa per essere stato ripreso da un estraneo a seguito di un comportamento scorretto, perché i genitori ti avrebbero, a loro volta, sgridato ritenendo che l’altra persona avesse agito a seguito di modelli e principi etici comuni.
A conferma di ciò basta considerare le similitudini dei comportamenti nelle diverse etnie, all’interno delle quali gli individui risolvono il problema del bisogno di sentirsi appartenenti a un gruppo, a una comunità e, quindi, della propria identità.
Con l’avvento del cinema i “modelli” sono diventati molti di più, ma ciò non ha influito sulla comunicazione, perché erano visti da soggetti già programmati nei primi anni della loro vita. Difficilmente un bambino di 2/3 anni veniva portato a vedere un film e, in ogni caso, si trattava di cartoni animati che non influivano sul suo “programma”, anche perché il solo fatto di uscire di casa e di recarsi in un altro ambiente, era percepito come un evento estraneo al contesto nel quale viveva.
Diversa e molto più condizionante è la presenza della televisione. Un neonato trascorre molte ore, allo stesso tempo, in un ambiente reale e in uno virtuale che gli mostrano migliaia di “modelli” e, non riuscendo ancora a distinguere il reale dal virtuale, inserisce nel suo programma altrettanti “modelli” che dovrà in seguito decodificare per potere gestire i rapporti interpersonali.
Ciò vale anche per il linguaggio verbale.Dopo circa tre anni i giochi sono fatti, il suo comportamento e il suo linguaggio saranno condizionati dal programma che si è formato, esattamente come un computer. Tutto ciò senza entrare nel merito della qualità dei modelli proposti dalla televisione.
Con l’avvento della TV, le scene di violenza mostrate sono in costante aumento e, soprattutto nei primi anni di vita, sono registrate e conservate codificando una serie di dati che rendono il soggetto convinto che tutto sia possibile e incapace di percepire la peri-colosità di certe azioni.
Prima della televisione un bambino non vedeva tali immagini, almeno fino all’adolescenza, salvo casi di famiglie con soggetti particolarmente violenti.Devo aggiungere che, nonostante tutto il male che oggi mostriamo ai bambini, il loro comportamento è abbastanza tollerabile.
Probabilmente nel DNA dell’essere umano ci sono degli “anticorpi” che evitano gli eccessi.
Presumibilmente avevano ragione i filosofi, che già nei secoli passati a∀ermavano che l’essere umano nasce buono e positivo, ma che sono la società e l’ambiente in cui vive a renderlo violento e negativo.
La difficoltà di decodificare il virtuale dal reale, ha portato a un allungamento del periodo dell’adolescenza, età nella quale si passa dall’infanzia, mondo di fantasia e “irreale”, al mondo “reale”.
A riprova di ciò sono gli episodi che a volte avvengono nell’adolescenza, protratta ora anche oltre i 20 anni, per i quali lo stesso soggetto rimane sor-preso dall’e∀etto disastroso del suo gesto, di cui non percepisce la pericolosità, perché vive ancora in un mondo “virtuale”.
Sia ben chiaro che non sto auspicando un ritorno al passato, anche perché i tempi cambiano, con i loro lati positivi e negativi, ma che si tratta di rielaborare tutti i sistemi di comunicazione tenendo conto dell’enorme mutamento che è avvenuto, ri-cordando che ciò dovrà essere studiato costante-mente perché si modificheranno continuamente le situazioni che influiranno sulla programmazio-ne della mente dei bambini.
Oggi non abbiamo più solamente la TV ma, a distanza di tempi sempre più brevi, nascono nuovi mezzi tecnologici e vie di comunicazione nelle quali è anche difficile distinguere il vero dal falso. Aumentano continuamente i cosiddetti “biomediatici” che, già programmati nei primi anni di vita, sono continuamente connessi alla rete ascoltando di più ciò che induce emozioni, piut-tosto che quello che stimola il ragionamento. I biomediatici tendono anche a prendere dalla rete solo ciò che già conoscono e che conferma le loro opinioni, in una sorta di nuovo conformismo ca-ratterizzato da scarsa volontà di approfondimen-to, passione per gli slogan e approccio emotivo alle discussioni.Si sta di∀ondendo sempre di più anche il multitasking, ossia la capacità di fare più cose contem-poraneamente che, in apparenza, può sembrare positiva e produttiva ma che, in realtà, essendo il nostro cervello incapace di sovrapporre immagini, rende l’individuo più impulsivo, più distrai bile, incapace di focalizzare l’attenzione su una sola cosa e, quindi, meno produttivo ma soprattutto, meno coinvolto, più superficiale e sbadato.
Ovviamente, i risultati non sono gli stessi per tutti i soggetti, perché fortunatamente abbiamo il fattore ereditario, la volontà e il cuore che possono modificare le risposte, ma la percentuale dei soggetti che rimangono coinvolti diventa sempre più grande.
Tornando alla possibilità di una migliore comunicazione tra un adulto e un giovane di oggi, occorre ricordare che le parole contano poco, anche perché, come ho scritto, non vengono percepite nello stesso modo;
“l’esempio” è l’unico linguaggio che può aiutare.
Esempio significa sincerità, coerenza tra quello che si dice e quello che si fa, comportamento corretto e rispettoso degli altri, amore inteso come “qualità” del sentimento e non come elargizione di una “quantità” di cose.
Occorre tenere conto del fatto che l’imprinting è già avvenuto e che serve lavorare sulla volontà del giovane a percorrere il percorso inverso aiutandolo a decodificare il virtuale. Solo in questo modo, a mio parere, si può ottenere il risveglio del “sentimento” che è la condizione indispensabile per instaurare un rapporto reale tra esseri umani diversi.In questo senso il karate tradizionale è perfetto, perché la comunicazione non avviene attraverso il linguaggio verbale, ma con l’esempio e con delle immagini fisiche e quindi comprensibili a tutti.
Ciò che è molto importante è che il giovane, con la pratica, percepisca che tutto avviene attraverso la sua volontà e che rafforzare la volontà lo renderà un essere umano più consapevole e, pertanto, più libero.
Questa consapevolezza gli permetterà di aprirsi maggiormente nei confronti del mondo esterno, iniziando così il percorso indispensabile per risvegliare i sentimenti e, infine, le passioni: un linguaggio universale.
Testo Originale
Giuseppe Perlati