Tratto dal Libro SAMURAI di L.
Vittorio Arena Samurai (Edizioni Mondadori)
Il metodo d'insegnamento della mia strategia si basa su uno spirito
sicuro di sé.
Dovete addestrarvi diligentemente.
MUSASHI, Gorin no sho
«Cosa? Sasaki Kojiro è qui?» Musashi non sapeva trattenere lo stupore. Come lui, anche il celebre
spadaccino era ospite di Nagaoka Sado. Quale migliore occasione
di affrontarlo, e accrescere la sua fama?
Il potente daimyo del Kyushu aveva forse invitato entrambi nella
speranza di un duello? Non c'era da illudersi: Musashi era ancora
giovane, e quasi sconosciuto.
Ma la prospettiva era allettante. Sasaki Kojiro, detto Ganryu,
era il più grande spadaccino del Giappone del Sud. Aveva
persino elaborato un proprio stile, impartendolo nella sua scuola.
Gli Hosokawa, i membri del potente clan del Kyushu, lo ammiravano.
Ma l'impetuoso giovane voleva cogliere la sua occasione. Non si
sentiva affatto intimorito, anzi... in cuor suo pregustava la
sconfitta di Ganryu! Era sicuro di sé, e si lasciava alle
spalle un periodo di incertezze. La Via della spada lo assorbiva
interamente, e lo scontro con un samurai di grande calibro avrebbe
rivelato la sua destrezza. «Devo battermi con Ganryu. È
l'etichetta a imporlo» Musashi aveva ragione. Come ospite
del daimyo, poteva sfidare lo spadaccino nella certezza di un
assenso. Erano le ragioni del cerimoniale a richiederlo.
«Ganryu è un grand’uomo, non c'è dubbio.
E conosce l'arte della spada. Ma io sono in grado di sconfiggerlo.»
Il suo rivale era apprezzato anche per la sua virtù, e
la grande compassione. Ma tutto ciò non lo interessava:
per Musashi, la Via della scherma non si incrociava con l'etica.
Ganryu era un uomo completo? Lo provasse, allora, con una manifestazione
di coraggio! Che importanza avevano il bene e il male, o i suoi
sentimenti buddhisti? Lo spadaccino accettò, anche perché
vi fu costretto. «Sta bene. Raccolgo la sfida di questo
giovane sconosciuto, samurai di infimo rango. E stato tanto incosciente
da provocarmi, ma se ne pentirà.»
Poi aggiunse, con un sorriso beffardo: «Pentirsene? Credo
proprio che non ne avrà il tempo!» Come scenario
del duello ci si decise per Funajima, una isoletta del Sud. Faceva
freddo, nel grigio mattino del 14 aprile 1612.
Musashi aveva studiato il posto meticolosamente. Qualche giorno
prima, prese alloggio in una locanda. E poco dopo conosceva ogni
minima sfumatura della zona, la spiaggia, le rocce e le insenature.
Ciò corrispondeva a un intento tattico, «la disamina
dell'ambiente circostante», che lui stesso avrebbe delucidato
in una sezione del Gorin no sho, intitolata «Il libro del
fuoco». Si trattava di mettersi davanti al sole, o con l'astro
alla propria destra: una posizione vantaggiosa. Poi occorreva
assicurarsi una facile ritirata: a sinistra niente impacci, e
a destra la spada in pugno.
Ganryu arrivò puntualmente alle otto del mattino. Ma Musashi
non c'era. Anche in altre occasioni il samurai si era avvalso
dello stesso espediente. Era un comportamento che irritava l'avversario.
Altri, invece, lo attribuivano alla sua incapacità innata
di rispettare la puntualità. O forse, chissà, questo
atteggiamento permetteva a Musashi stesso di scacciare l'angoscia
del duello. «Quando ogni poro del suo corpo, al pari della
sua mente, si dimenticava (dello scontro imminente), nel suo essere
non restavano altro che acqua e nuvole.»
Per l'occasione Ganryu usò una spada sfavillante, confezionatagli
da un celebre artigiano. Era molto lunga e ben affilata. «Presto,
andatelo a chiamare!» I giudici di guardia si precipitarono
nella locanda, e trovarono Musashi addormentato! Con la testa
sotto alle coperte, sembrava proprio immerso in un mondo più
appagante. «Signore, è atteso al luogo del duello.
La preghiamo di rispettare i patti.»
Ma lui sembrava disinteressarsene, e rispose controvoglia: «Venite
a disturbarmi per un po' di ritardo? Permettetemi almeno di mettere
qualcosa sotto i denti!»
Musashi lo faceva apposta. Prendeva tempo, e mangiò lentamente.
Proprio come se non avesse alcun impegno! Intanto una piccola
flottiglia si era radunata sulla costa. Spettatori occasionali
erano impazienti di assistere alla contesa.
Mentre Ganryu indossava un abito da cerimonia, di una accesa tinta
cremisi, il suo avversario era vestito come al solito, non certo
elegantemente. Forse non prendeva sul serio la sfida?
Lo sguardo del maestro di scherma si posò sulla cintola
del suo rivale. Ganryu non seppe trattenere il suo stupore. «Ma
come? Hai una spada di legno?» «Perché? Hai
qualcosa in contrario?» Se era uno stratagemma per disorientare
l'avversario e simulare goffaggine, Musashi aveva raggiunto il
suo scopo. Secondo la leggenda, la spada era ricavata dal remo
di una barca.
Proprio un gran bello spettacolo! Uno spadaccino tutto agghindato
stava per scontrarsi con un avversario incolto, trasandato e distratto.
Ciò creava un forte contrasto. Che strano animale si trovava
davanti Ganryu, lo spadaccino dalla carriera sfolgorante! «Tu
vorresti batterti con me? Povero sciocco, hai fatto male i calcoli!
Dovevi pensarci meglio, senza agire d'impulso!»
La voce di Ganryu suonava minacciosa. Il grido si perse nel falsetto.
«Via, questa non mi serve!»
Si liberò della guaina con un gesto brusco della mano.
Il sole del mattino fece scintillare la lama nelle sue mani. «Non
è un buon auspicio», osservò Musashi.«Cosa
dici, impudente?» «Non si getta un fodero tra i flutti!»
Ganryu ne fu sorpreso. Quel bizzarro individuo, sporco e maleodorante,
osava tentare di istruirlo? Non era il caso di farla finita con
quella pagliacciata? In un attimo di esitazione, i due si guardarono
negli occhi. Poi il duello iniziò. Ciascuno si avventò
sull'altro con tutta la sua foga. Mirarono alla testa, il punto
più debole, da cui poteva derivare una rapida vittoria.
La benda rossa sulla fronte di Musashi fu tranciata in due. Egli
l'aveva scelta di quel colore per non dar modo ai nemici di avvedersi
della portata di una ferita, o di un fiotto di sangue. Era stato
colpito di striscio, evitando la morte per un pelo.
Ganryu vacillò. Evidentemente neanche il fendente di Musashi
era andato a segno. Per il maestro di scherma fu una novità:
nessuno era mai riuscito a tanto! Poi tentò di recuperare
l'equilibrio, e si scagliò sul giovane. La spada lunga
e la spada di legno si incrociarono. Sembravano loro le vere protagoniste
dello scontro: animate di vita propria, sfuggendo al controllo
dei loro proprietari promettevano la morte.
Con le sue urla, la folla incitava i contendenti. Era scesa dalle
barche, e gli si accalcava intorno per contemplare meglio lo spettacolo.
Tutto si concluse in pochi attimi, con veloci scambi di battute.
Ganryu era steso a terra, mentre Musashi si asciugava il sudore
con le mani.
«È morto!», urlò chi si precipitò
a soccorrere il grande spadaccino.
Il novellino aveva vinto ancora. Ma ora sembrava altrove, assorto
nei suoi pensieri. Era stata un'impresa faticosa? Poi Musashi
si rivolse ai giudici di gara.
Prima che dicesse una parola, quelli gli lessero negli occhi.
«La riporteremo indietro, se è questo che vuole.»
Musashi montò sulla barca. Il suo compito era finito. Allontanandosi
dall'isoletta, i suoi occhi si posavano sui monti. Sembrava proprio
che volessero indugiarvi, lucidi e taglienti come la sua spada
di legno.
Qualcuno gli chiese il suo parere, un breve commento sulla contesa.
Ma lo spadaccino non degnò l'interlocutore della minima
attenzione. Preferì non replicare, mentre il suo silenzio
rendeva ogni curiosità superflua. «Parla forse il
Cielo?», era la domanda che usava rivolgersi Confucio.
Come fece Takezo a diventare Musashi? L'immaginazione popolare
ne impregna la figura al punto che è difficile distinguerne
i contorni. Come valutare l'attendibilità dei fatti? Affidandosi
alla biografia del figlio adottivo, o al suo stesso resoconto?
Musashi si dichiarò invincibile, ma le cronache degli avversari,
talvolta, lo smentiscono. E allora?
Nonostante la sua fama, gli eventi salienti della vita dello spadaccino
sono avvolti nel mistero. La sua stessa data di nascita è
incerta, anche se, per convenzione, la si fissa intorno al 1584.
Si sa il luogo di nascita, il villaggio di Miyamoto nella provincia
di Mimasaka, da cui Musashi prenderà il cognome.
Poi si sviscera il rapporto con il padre, altamente problematico.
Il primo nemico è il suo stesso genitore - che strano!
Lui gli resta avvinto da un fortissimo, incrollabile sentimento
di amore-odio. Takezo sembra un bambino qualsiasi, ma cresce più
forte degli altri, nutrito da un'energia indomabile. Shinmen Munisai,
il padre, se ne accorge e per un po' lo prende sotto la sua tutela.
Gli farà da maestro darmi; niente problemi: nonostante
il suo rango samuraico tutt'altro che elevato, è uno spadaccino
di rilievo. Insomma, non è il massimo dello status sociale,
ma Musashi non se ne pentirà. Il ricordo di quei primi
anni accanto al padre gli resterà impresso nella memoria
in maniera indelebile.
Un papà crudele, che ripudia la moglie senza curarsi di
lui. Madre e figlio riparano nella provincia di Harima. Munisai
non vuole più saperne.
Tuttavia, con il tempo il suo animo pare raddolcirsi. Solo perché
Takezo promette bene: il vigore c'è, e anche la muscolatura.
Sarà un bravo guerriero. Il ragazzo si divide tra il padre
e la madre. Resta accanto alla donna, ma sono le visite dell'uomo,
rare e puntuali, a entusiasmarlo.
Qui si entra già nella leggenda, perché è
probabile che quest'addestramento non sia mai avvenuto. O che
il padre perisse di morte naturale, senza alcun contrasto con
la moglie.
Comunque sia, Takezo può essere stato sottoposto a due
rigorose discipline: la scherma e l'arte del fitte. Uultimo termine
caratterizza una spranga di ferro a punta aguzza, con cui si disarmava
il nemico. Nel periodo Edo, quest'arte si sarebbe diffusa in tutto
il Giappone.
Il talento del giovane è innegabile, e il padre ne va fiero.
Ma la loro è una strana relazione. Non si tratta di amore,
bensì di qualcos'altro, forse di amicizia, nonostante un'atmosfera
di forte competizione. Takezo lotta contro il padre per apprendere
i rudimenti delle arti marziali. E quello, ansimando per la forza
del figlio, è orgoglioso di impartirglieli.
Munisai lo incontra solo in speciali occasioni; per il resto,
Takezo vive con la madre. Per lui il padre conserverà sempre
qualcosa di estraneo, pur essendo un combattente ideale da ammirare.
Dopotutto, Munisai è l'uomo che ha abbandonato lui e la
madre. L'odio del ragazzo attecchisce sullo sfondo.
Munisai non risparmia a Takezo uno strenuo tirocinio e, all'occasione,
cocenti umiliazioni. Così ne tempra il carattere, avvalendosi
di espedienti che il giovane non può capire.
Alla fine, l'animosità accumulata esplode in un litigio.
È un momento cruciale perché, poco tempo dopo, Munisai
morirà. Manca l'opportunità della riconciliazione.
Ciò lasciò forse nel ragazzo una sensazione di amarezza.
Quello strano tipo, che andava a trovarlo di tanto in tanto, e
con cui egli sembrava non intendersi, verrà a mancare all'improvviso.
C'erano tutte le condizioni per instillare in lui un durevole
senso di colpa.
È forse per questo, data l'impossibilità di sanare
la frattura, che il Takezo adulto non avvertirà il peso
della morale. Sarà la sua reazione al mondo delle convenzioni.
Con certi sentimenti o valori sbandierati, quali l'amore e la
pietà filiale, egli non si troverà mai in sintonia.
Esistevano i presupposti di una nevrosi, attraverso un complesso
edipico non strutturato. Takezo si porrà sulle orme del
padre, surclassandolo persino. Ma il progetto di umiliarlo non
nasceva forse dall'odio? «Se non posso riappacificarmi con
lui, diventerò come lui; sarà un modo per mostrargli
il mio affetto.» Un pensiero risoluto, quasi inaccessibile
alla coscienza. Takezo che diventa Musashi per ripercorrere la
carriera paterna. Takezo che sviluppa la sua forza fisica per
mantenere le aspettative di Munisai. Takezo che odia le donne,
ritenendole inferiori, proprio come il padre. Ci si potrebbe spingere
oltre, rasentando però i rischi dello psicologismo.
La descrizione del carattere di Musashi non si ferma qui. Perché
tanta avversione per l'igiene e il bagno? Soltanto un rifiuto
delle regole? Lo spadaccino non curò mai il suo aspetto
esteriore. Non gli interessava attrarre uomini o donne, e neppure
aderire all'etichetta. Secondo lui, un samurai non doveva preoccuparsi
dell'abito; molto meglio sapersi gettare nella mischia con tutto
il proprio impeto. Come ci potrebbe essere il tempo di seguire
i canoni dell'eleganza? Anche nei duelli formali Musashi eviterà
gli abiti di circostanza.
Il vestito, addirittura, poteva essere sempre il medesimo, come
una divisa. Certe massime indicavano disciplina, rigore e austerità.
Alla scherma non occorrono orpelli: l'essenziale è la spada.
Non restava che proseguire il duro addestramento cui il padre
lo aveva abituato.
E se qualcuno avesse avuto da ridire sul suo contegno, sul fetore
che emanava anche a distanza... Be', Musashi lo avrebbe fatto
pentire amaramente del suo ardire, o si sarebbe limitato a godere
del suo imbarazzo! Era difficile capire quali dei suoi vezzi nascessero
dalla necessità o da un intento didattico, talora impenetrabile.
La trasandatezza era studiata, all'unico scopo di épater
le bourgeois? Oppure, chissà, era dettata da pigrizia e
difetti inestirpabili!
Lo spadaccino si sentiva emarginato da una società che
non tollera l'eccezione, né la bizzarria. Il suo aspetto
incolto era il principale antidoto al conformismo dilagante. Certo
è che nel primo periodo dei Tokugawa la sua figura ebbe
modo di mettersi in risalto, come pura incarnazione dell'arte
della spada.
È Musashi stesso a fornirci alcune preziose indicazioni
biografiche nel suo Gorin no sho, «Il libro dei cinque cicli
(o anelli)». Ci aiuta a colmare le lacune, accennando ai
suoi duelli. Egli cominciò presto a combattere, all'età
di tredici anni. E abbatté senza difficoltà il suo
avversario, un certo Arima Kihei della scuola shintoista Ryu Kenjutsu,
esperto nella spada e nella lancia. Ciò è impressionante,
pur essendo il periodo della guerra civile. Qui i ragazzi saltavano
i piaceri dell'adolescenza, e passavano subito alle tensioni della
maturità.
Il giorno prima del duello, Musashi si era imbattuto in un cartello
che recava questa scritta: «Chiunque voglia sfidarmi sarà
il benvenuto», e aveva colto l'occasione. Arima lo portava
con sé in evidenza, talora appeso al collo. Ma ne ignoriamo
lo stupore, trovandosi davanti a un ragazzino! Musashi riuscì
a stenderlo subito a terra, e gli assestò una bastonata
mentre quello tentava di rialzarsi. Poi lo finì, facendogli
vomitare sangue. L'impresa gli fruttò una buona reputazione
locale, del tutto insolita per un giovinetto.
Tre anni dopo, avvenne il secondo scontro. Stavolta l'avversario
era Tadashima Akiyama, un samurai della provincia di Tajima. Anche
in questa occasione il duello si svolse in fretta, a tutto vantaggio
di Musashi. Questi, nel suo libro, descrive entrambi i nemici
come «abili strateghi», escludendone l'incapacità
o l'inettitudine.
I trionfi di un ragazzo così giovane presentano un aspetto
inquietante, anche per gli esiti truculenti degli incontri. Attecchisce
la convinzione che lo spadaccino possedesse una natura superiore,
accanto al sospetto di invulnerabilità. «Sin dalla
giovinezza, il mio cuore inclinava all'arte della strategia.»
Un'asserzione inconfutabile! Musashi riferisce di altri duelli,
avvenuti nell'età tra i tredici e i ventinove anni. Ma
è sintetico, e non entra nei dettagli. Siamo perciò
costretti a cercarli altrove, dove la fiction si confonde con
la realtà. Certe narrazioni sanno già di leggenda.
Sino ai ventuno anni, Musashi restò a casa. E proseguì
un addestramento che reputava incompleto. Il padre lo aveva abituato
a traguardi elevati, e lui rincorreva la perfezione. Stava maturando,
diventando sempre più consapevole, ma gli restava ancora
molta strada da percorrere.
A poco a poco, si rese conto che la Via della spada richiedeva
il risveglio spirituale. Fu questa la direzione in cui Musashi
si muoverà in seguito, senza mai trascurare un severo training
nella scherma e nella lotta.
Trapelò anche la convinzione che il suo vero nemico fosse
lui stesso, il proprio lo, da abbattere a ogni costo, senza però
cedere all'ascesi o alla mortificazione del corpo. Musashi restò
laico, ed è difficile incasellarlo in una prospettiva Zen.
Assimilò lo spirito della scuola buddhista, questo sì,
ma attraverso modalità personali. «Per scrivere questo
libro non sono ricorso né alla Legge del Buddha, né
alle dottrine di Confucio, né alle antiche cronache belliche,
né alla letteratura sulle arti marziali.» È
una confessione lucida, che ammette un percorso autodidattico,
indipendente dai maestri.
Anche per questo Musashi appare un superuomo. Quando qualcuno
dei suoi avversari, all'inizio di un duello, gli chiedeva dei
suoi maestri o del suo metodo (do), la risposta era sempre la
medesima: «Non ne ho». Ciò risulta sconcertante,
in una cultura che assegnava una funzione inestimabile alla tradizione
e alle scuole.
A ventuno anni Musashi partì per Kyoto. Qui avevano stabilito
la loro sede i principali spadaccini, e lui doveva sfidarli per
carpirne lo spirito. In questo periodo egli andava ancora in cerca
di spunti o di suggerimenti. Così, per farsi un nome, inaugurò
il cosiddetto «pellegrinaggio del guerriero» (mushashugyo).
Alcuni si prefiggevano di raggiungere l'illuminazione e frequentavano
i monasteri, mentre lui viaggiava per perfezionare l'arte della
spada. Altri pretendevano che queste vie non fossero diverse,
e che alludessero tutte a una sorta di unità fondamentale;
tra queste, si ricorda l'arte del tè, il tiro con l'arco,
la scherma, la poesia e molte altre.
Anche questo percorso era dettato dall'emulazione. Già
Tsukahara Bokuden aveva scelto i panni del viandante, inseguendo
la pura competizione. Musashi ne ricalcò le orme, sperando
di incontrare avversari del proprio calibro. Bokuden, nato nel
1490, era uno dei più grandi spadaccini del Giappone, maestro
dell'arte del «fendente unico» (hitotsutachi). Facile
dedurne quanto tempo gli occorresse per sbarazzarsi dell'avversario!
Oltre che da fattori di gloria personale, questi duelli erano
motivati dall'intento di provare la superiorità del proprio
stile. Fu in queste occasioni che Musashi si accorse di non averne
alcuno, e che, ciò malgrado, gli altri si rivelavano inferiori.
Allora si mostrò caparbio e ostinato, rincorrendo una meta
inattingibile.
In questo periodo certe contese erano ancora lecite. Ieyasu aveva
sconfitto il suo più acerrimo rivale, il figlio di Hideyoshi,
nella battaglia di Sekigahara. Vi partecipò anche Musashi,
ma sul fronte dei perdenti. Lo spadaccino era stato dato per morto,
e trascinava il suo corpo nella polvere. Poi si riprese, e da
allora iniziò la sua rinascita. Una celebre fiction ispirata
a Musashi si apre proprio così, nel trambusto di Sekigahara,
con l'eroe che si aggira tra i cadaveri. leyasu si godette il
suo trionfo. Divenne il signore del Giappone, il primo di una
lunga serie di shogun. Poi si servì di assassini e agenti
segreti per rafforzare la sua autorità nei confronti dei
daimyo più influenti.
In questo clima si combatteva una sorta di guerra fredda senza
esclusione di colpi, con rivolte occasionali che tradivano l'insoddisfazione
e il malcontento di una larga fetta della popolazione. Quando
i Tokugawa riuscirono finalmente a garantire un lungo periodo
di pace, tanti samurai si trovarono disoccupati. Divennero viandanti
senza padrone, come indica la loro denominazione di ronin; letteralmente
«uomini onda», agitati in ogni direzione.
Musashi era uno di loro, come svela il suo pellegrinaggio. Compì
gli anni di apprendistato, al pari del Wilhelm Meister goethiano,
in cerca di fortuna. Rientrava in una élite priva di mezzi,
che costituiva una mera aristocrazia dello spirito. In questo
periodo di crisi altri samurai cambiarono mestiere, dandosi persino
alla fabbricazione degli stuzzicadenti! Ma Musashi non poteva
diventare un commerciante, né un artigiano. La sua abilità
artistica, invece, quella sì che era innegabile! Come attesta
l'autoritratto.
Alcune scuole di scherma, come quella della famiglia Yagyu, venivano
sponsorizzate dai Tokugawa, e alla fine i loro membri diventavano
agenti segreti. Un eccezionale outsider, sudicio e malvestito,
osò affrontarle nella loro stessa specialità, animato
unicamente dalla propria volontà di potenza. Era proprio
strano, Musashi. I residui di un eczema infantile gli deturpavano
il volto, conferendogli un rossore inusuale. E lui non poteva
rasarsi il capo alla maniera dei samurai, a causa di un grave
inestetismo. I capelli crespi e folti fungevano da cornice: sembrava
che indossasse una maschera, e il suo ghigno ne accentuava i contorni,
già temibili. Risultava un diavolo già dall'aspetto,
e ciò gli conferiva un vantaggio non trascurabile sull'avversario.
Appena arrivato a Kyoto, Musashi ebbe l'ardire di sfidare i membri
di una delle famiglie più illustri, gli Yoshioka, istruttori
degli shogun Ashikaga per molte generazioni. Volle affrontarne
Genzaemon, il capostipite. Che mossa azzardata, e quale presunzione!
«Perché mai dovrei raccogliere la sfida di uno sconosciuto?»
Genzaemon continuava a chiederselo, ma poi ci pensò sopra,
e inspiegabilmente, decise di battersi. Musashi avrebbe raggiunto
un altro traguardo? Si vide subito che lo sfidante non aveva dignità,
né decoro. Nel giorno convenuto gli Yoshioka lo attesero
invano, mentre il tempo passava e di lui non si scorgeva neanche
l'ombra. Che stava facendo Musashi? Dormiva! Era un suo comportamento
abituale, dunque. Che strana strategia! Poi lo spadaccino domandò
scusa al messaggero, pregandolo di avvertire Genzaemon che sarebbe
arrivato al più presto.
Ma i tempi di Musashi erano piuttosto lunghi. Se la prese comoda,
secondo il suo stile. Alla fine, con altre due ore di ritardo
si concesse all'avversario. Una famiglia così prestigiosa
poteva accettare l'oltraggio? I duellanti affrontarono la sfida
con atteggiamenti differenti. Genzaemon era irritato per il ritardo,
e voleva sbrigarsela in fretta, impaziente di tornare ai propri
affari. Musashi, invece, ostentava una calma e un distacco olimpici,
come se non si trovasse sulla scena di uno scontro.
Nel «Libro dell'acqua», una sezione del Gorin no sho,
molto tempo dopo scriverà: «Nelle questioni strategiche,
il vostro atteggiamento non deve differire dal normale. Che combattiate
o siate intenti al lavoro quotidiano, dovreste apparire risoluti,
ancorché calmi.
Affrontate la situazione senza tensione ma neanche con indifferenza;
che il vostro spirito sia ben determinato, sebbene privo di presupposti
o pregiudizi. Quando il vostro spirito è tranquillo, non
lasciate che il corpo sia troppo rilassato; e se il corpo è
rilassato, non lasciate indebolire la mente. Non lasciate che
la mente sia influenzata dal corpo, o che il corpo sia influenzato
dalla mente. Riguardo alla presenza mentale, essa non deve essere
né scarsa né eccessiva . Una presenza mentale molto
elevata è segno di debolezza, e una molto bassa è
segno di rigidità. Non lasciate che il nemico penetri la
vostra mente.»
Forse Musashi voleva vendicare il padre, già scontratosi
con gli Yoshioka. Munisai ne aveva sconfitti tre, in duelli impegnativi.
Ashikaga Yoshiaki, lo shogun, gli aveva chiesto di insegnargli
l'arte della scherma. Ed era scoppiata una forte rivalità
tra lo sconosciuto e la celebre famiglia. Il figlio ne riprendeva
le mosse. Un altro outsider, stavolta più temibile, andava
a provocarli.
Forse gli Yoshioka non si ricordavano neppure del duello con Munisai.
Chi avrebbe mai pensato al figlio? O chissà, tutto accadeva
casualmente, per la sete di gloria di Musashi!
Ora si trovavano di fronte: il capofamiglia e il giovane. Tutto
si svolse rapidamente. La sorte di Genzaemon era segnata sin dall'inizio.
Nonostante la sua spada, superiore a quella di Musashi, egli si
trovò subito steso al suolo, e incapace di reagire. L'avversario
lo colpì con impeto inesorabile.
Non era morto, però. Genzaemon aveva solo perso i sensi.
Per Musashi era sufficiente. Voleva vincere, non stravincere.
Più tardi, l'illustre membro degli Yoshioka rinvenne e
apprese come si erano svolti i fatti.
Tanta fu la sua delusione che prese una decisione irrevocabile:
«Non mi resta che radermi il capo. Solo prendendo i voti
potrò riscattare l'onore della mia famiglia, gravemente
macchiato.» Poi si recise la cresta, segno della sua militanza
di samurai, che era solo un retaggio del passato.
Ma non era finita. Crebbe il risentimento degli Yoshioka nei confronti
dello Tanto più che Musashi insisteva nel rimanere in città,
e ciò dava fastidio.
Fu il secondo fratello, Denshichiro, a sfidarlo. Lo spadaccino
accettò di buon grado. Alle solite condizioni, però:
arrivando in ritardo, fece indignare l'avversario. Lo predispose
negativamente, per approfittare di un vantaggio.
Anche questo fu un duello brevissimo. Con un unico fendente della
sua spada di legno, Musashi troncò di netto la testa di
Denshichiro. La morte dello sfidante rendeva la situazione ancora
più incresciosa. Chi avrebbe cancellato l'onta?
A quel punto restava soltanto un membro della famiglia, Hanshichiro,
il figlio di Genzaemon. Era bravo, senza dubbio, ma secondo alcune
fonti sarebbe stato addirittura preadolescente! Musashi avrebbe
trionfato facilmente.
I vassalli degli Yoshioka si consultarono tra loro, per decidere
il da farsi. Pensarono di scongiurare una sconfitta prevedibile,
appostandosi in un'imboscata. Questa volta Musashi non avrebbe
avuto scampo.
Ma lo spadaccino cambiò strategia. Questa volta, arrivò
con un forte anticipo sul luogo del duello. Lo scenario era un
pino che si ergeva a ridosso di alcune risaie. Lui si nascose
tra i cespugli, prevenendo gli assalitori. Anche questo corrispondeva
a un intento strategico. Era ormai ben nota, anche ai suoi nemici
di Kyoto, la sua mancanza di puntualità. Musashi, cambiando
abitudini, volle coglierli di sorpresa.
Essi cominciarono a sospettare che ormai non arrivasse più.
«Vuoi vedere che è fuggito?» Il tempo passava,
e il sospetto che Musashi avesse lasciato Kyoto divenne una certezza.
Fu un grave errore. Inaspettatamente, lo spadaccino balzò
fuori dai cespugli. Nella sua furia travolse un paio di vassalli,
per poi abbattere sul colpo il giovanissimo membro degli Yoshioka,
il quale indossava gli abiti formali della circostanza.
Poi si diede alla fuga, e la raffica di frecce che si levò
minacciosa non riuscì a raggiungerlo.
Con l'espressione «colpire il nemico all'istante»
Musashi intendeva questo: «Quando vi trovate accanto all'avversario,
colpitelo più rapidamente e direttamente possibile, senza
muovere il corpo o agitare la mente, appena lo scoprite perplesso.»
Un colpo di striscio non sarebbe stato risolutivo, né efficace.
«Colpire e ferire di striscio sono due cose diverse. Ferire
di striscio significa soltanto toccare il nemico. Anche se lo
colpite con forza, e il vostro avversario muore subito, resta
una ferita di striscio. Soltanto quando colpite con decisione,
la vostra mente risulta ben determinata.»
Qualcuno lo avrebbe biasimato, come infanticida o poco meno. D'altra
parte, Musashi aveva più o meno la stessa età della
sua vittima, nel momento del suo primo trionfo. Erano tempi di
inaudita ferocia, e la vita dei giovani era sospesa a un filo.
Musashi appariva un amorale, disposto a tutto pur di raggiungere
il suo scopo. Come il superuomo di Nietzsche, ignorava la distinzione
tra il bene e il male per travalicare il conosciuto.
Nel frattempo, cresceva il suo prestigio. All'inizio della carriera,
Musashi aveva affrontato due provinciali, sgominandoli malgrado
la precoce età. Ma ora otteneva il vero riconoscimento,
ai danni di una famiglia illustre.
La par condicio impone un'altra lettura, meno entusiastica . Le
Cronache familiari degli Yoshioka non recano traccia degli altri
duelli, perché già nel primo Musashi si sarebbe
trovato in difficoltà. Sarebbe stato lui lo sconfitto,
anziché Genzaemon. Costui gli recise un sopracciglio, inducendolo
a sospendere la lotta. Forse poi lo spadaccino fu provocato dagli
altri Yoshioka, senza però raccogliere la sfida. Alcuni
romanzi accettano questa interpretazione, e lo ritraggono in fuga,
un comportamento insolito per lui.
Il pellegrinaggio continuò con ancora maggiore foga. Alcuni
daimyo e samurai d'alto rango cominciarono a sentir parlare di
Musashi, e lo ospitarono per godere dei suoi servigi. Ma la strada
presentava, di volta in volta, un nuovo avversario e lo spadaccino
non poteva indugiare. C'era appena il tempo di rinfrancarsi e
partire subito per una nuova avventura.
Gli scontri si succedettero in crescendo, rivelandosi sempre vittoriosi.
Musashi ebbe occasione di perfezionare l'arte della scherma, cui
offrì uno speciale contributo attraverso la creazione di
un suo stile. Lo battezzò Nito ichi ryu («Due spade:
una scuola»). Poiché l'uomo ha due mani, si servirà
di due spade, anziché di una. Da una semplice constatazione
si sviluppò una tecnica impareggiabile. Lo scopo? La certezza
del trionfo.
«La via della mia scuola consiste in questo principio: nell'alimentare
lo spirito della vittoria, si adoperi qualsiasi arma e di qualsiasi
misura.»
«Secondo la mia scuola si può vincere con la spada
lunga, con la spada corta o con un'arma di qualsiasi estensione.»
È meglio usare due spade anziché una sola, quando
combattete una folla e specialmente se volete fare prigionieri.
Musashi osservò che certi principi non possono essere spiegati
esaustivamente, ma solo accennati. Sarà l'allievo a corredare
i suggerimenti con le integrazioni necessarie.
«Gli studenti della mia scuola strategica dovrebbero esercitarsi
sin dall'inizio a reggere sia la spada corta che quella lunga
in ciascuna mano.»
La spada lunga è ritenuta la base del training, in quanto
permette di dominare il mondo e sé stessi. Una volta che
si sia riusciti a padroneggiarla, essa permetterà a un
solo uomo di abbatterne dieci, a cento di abbatterne mille, e
a mille di abbatterne diecimila. Il numero, in certi casi, è
relativo: benché si affronti un avversario soverchiante,
si potrà sempre sconfiggerlo. «Nella mia arte della
strategia, un solo uomo vale quanto diecimila.»
Ogni arma consente di vincere. Tutto dipende da come la si usa.
«L'arco si rivela adeguato, dal punto di vista strategico,
all'inizio di una battaglia, specialmente in una palude, poiché
si possono colpire rapidamente i lancieri. Tuttavia, è
insoddisfacente negli assedi, o quando il nemico si trova a una
certa distanza. Per questo ai nostri tempi esistono poche scuole
per gli arcieri. Oggi questa abilità serve a poco.»
Naturalmente, anche i moschetti vengono presi in considerazione.
Prima della collisione tra le armate sono indispensabili, però
nel corpo a corpo, all'incrociarsi delle spade, diventano inutili.
Il principio basilare della strategia resta il tempismo. Solo
quando si conoscono i ritmi di una battaglia o di un duello si
potrà intervenire al momento giusto e cogliere il trionfo.
«Saper scegliere il momento opportuno è determinante
nella danza e in qualsiasi tipo di musica: gli strumenti si trovano
in sintonia soltanto in una situazione di perfetto tempismo. La
concezione del tempo e del ritmo compete anche alle arti militari,
al tiro con l'arco e con le armi da fuoco, nonché nell'equitazione.
In tutti gli stili e le abilità occorre tempismo.»
Enunciando gli assunti generali di ogni strategia, si arriva a
proposizioni etiche di ampia portata:
Non pensate in maniera disonesta. La via consiste nell'addestramento.
Familiarizzate con qualsiasi arte.
Cercate di conoscere i metodi adottati in tutti i mestieri. Sappiate
discernere il successo dal fallimento nelle questioni mondane.
Sviluppate una facoltà di giudizio intuitiva e cercate
di comprendere tutte le cose.
Percepite le cose che non si vedono. Prestate attenzione all'insignificante.
Non dedicatevi all'inutile.
Musashi fondò una scuola esoterica, illustrando ai suoi
allievi i princìpi della scherma, validi in ogni altra
situazione o contesto. Il Gorin no sho è simile all'Arte
della guerra: ha un valore psicologico, non soltanto militare.
La strategia in esame non è efficace soltanto in battaglia,
ma anche quando il nemico è l'lo o il proprio Sé.
Era questa la scuola con cui Musashi, sino a un certo punto, poté
trasmettere il suo insegnamento. Poi dedicò tutte le sue
forze a una variante didattica, spingendosi alle altezze del Niten
ichi ryu («Due cieli: una scuola»). Questa prospettiva
era destinata a una diffusione più esoterica: di più
ardua comprensione, la corrente si estinse con lui stesso. Gli
allievi non ne furono all'altezza. Uno stile attuale vi si richiama
di nome e vi prende ispirazione. Ma rimane un'altra cosa.
La vera arte di un maestro perisce con la sua scomparsa. Si può
dire che la seconda forma di istruzione, Niten ichi ryu, considera
il movimento un eccesso, e tenta di economizzarlo. Essa non ammette
lo spreco, né i gesti superflui, e penetra al cuore del
problema: sopprimere rapidamente l'avversario. Il tempismo ne
è il cuore, e la scuola si avvale di un'abbondante quantità
di spade, lunghe e corte.
Essa è simile al moto gentile e fluido, e purtuttavia deciso,
dell'acqua. Reminiscenze taoiste, o dettate dal buon senso? Musashi
sostiene di non aver imparato dai libri, malgrado abbia dedicato
una parte della vita allo studio.
Ogni parola nel «Libro dell'acqua» sonda le profondità
del Niten fichi ryu. Secondo le aspettative dell'autore, la sezione
va letta lentamente e con grande attenzione.
«Impugnate la spada lunga con una attitudine fluttuante,
tra il pollice e l'indice, con il medio né rigido né
molle, e le altre dita salde. »
«In genere, detesto la rigidità e la fissità,
sia nelle mani che nella gestione delle spade lunghe. La rigidità
comporta una mano morta, inerte. La flessibilità, al contrario,
implica una mano viva.»
Entrambe le tendenze concepiscono le due spade come un'unità
compatta, il punto focale dell'universo. Se le spade sono unite,
tutte le altre cose sono unite, o appaiono tali all'osservatore.
Ciascuno sceglierà la propria via, nella convinzione di
Musashi. La scherma gli dava ciò che altri cercavano nello
Zen, spesso senza trovarlo. E l'illuminazione di cui perché
attraverso la sua lama Musashi incontra lo spirito del mondo,
il soffio vitale (ki) che permea ogni manifestazione del vivente.
Anche Musashi pone al centro della sua dottrina l'atteggiamento
del non atteggiamento, secondo i dettami del buddismo. La spada
che ferisce è quella che lo spadaccino regge senza sforzo,
come se non se ne aspettasse nulla. Però, nel contempo,
egli vuole vincere e userà ogni risorsa disponibile per
raggiungere lo scopo. In questo consiste la differenza tra Musashi
e il buddhismo.
Takuan Soho (1573-1645) nutriva altre convinzioni, ma esistono
dei punti di contatto tra lui e Musashi. «Mentre uccidete,
non nutrite alcun pensiero del tipo: "sto uccidendo qualcuno";
mentre risparmiate una vita, non nutrite alcun pensiero del tipo:
"sto risparmiando la vita a qualcuno". Insomma, nell'uccidere
o nel dare la vita, non dovete affermare affatto l'Io.»
Musashi è conscio del suo fine, mentre Takuan mortifica
l'Io, sapendo i pericoli del narcisismo. Chi ha ragione? i due
si conobbero, ma si ignora la reale portata dell'influsso di Takuan
su Musashi. E poi, il superuomo ha mai avuto dei maestri? Egli
combatte, ignorando i principi della sua arte; una eccessiva riflessione,
infatti, inibisce la spontaneità. Musashi è più
realista del re, più buddhista dei buddhisti, i quali si
affidano ancora a un punto di riferimento e formulano uno schematismo.
«La cosa più importante da tenere a mente, quando
impugnate una spada, è questa: colpire l'avversario in
qualsiasi modo. Ogni volta che schivate, centrate, saltate o cozzate
contro la spada dell'avversario, dovete colpirlo sfruttando l'energia
del movimento stesso. La cosa essenziale è questa. Se pensate
soltanto a centrare, a saltare, a cozzare contro il nemico o a
toccarlo, non sarete in grado di colpirlo con efficacia.»
Questa è la voce del Gorin no sho. Si insiste ancora più
del buddhismo sulla naturalezza e l'assenza di principi. Perciò
l'arte della strategia non si può scrivere al pari di un
resoconto sullo stile di Musashi. Come il superuomo egli appare
sempre oltre, proteso verso l'inafferrabile. Takuan, invece, sembra
ancora dipendere dalle parole, e avverte l'esigenza di richiamarsi
alla non mente (mushin). Ma entrambi si incontrano nella «pada
senza spada», una lama che ferisce perché usata senza
sforzo.
Takuan non sembra ammettere l'esistenza degli opposti: la sconfitta,
per lui, equivale alla vittoria. Musashi non condivide certi pensieri:
occorre, invece, trionfare a tutti i costi. Anche l'arte della
sconfitta, tipica dei samurai, ne riceve un nuovo impulso: la
si smentisce, insomma. Yamato e Minamoto Yoshitsune appaiono in
una luce diversa, come seguaci del fallimento. E forse un caso
che oggi, nel Giappone industrializzato e in America, il libro
di Musashi costituisca il più prezioso manuale di autostima?
Si preferirà sempre la vittoria alla sconfitta: un truismo
che non rientrerebbe nella tradizione dei samurai.
Musashi l'impulsivo, l'irruento, il fautore di un'arte indescrivibile,
che persino lui stesso trova vaga. Simile al flusso dell'acqua,
appare sempre mutevole, rivolto a una meta irraggiungibile. Musashi
che tenta di illustrare i principi della sua strategia, e che
fallisce, inevitabilmente, perché questi dipendono dalla
sua abilità innata, dalla sapiente combinazione di forza
fisica e intelligenza militare. Musashi che riesce a trasmettere
soltanto una minima parte del suo insegnamento.
Un personaggio senza morale, il quale si cura unicamente di abbattere
l'avversario, senza lasciarsi condizionare dall'età, dal
sesso o dalla capacità di opporre resistenza. La furia
di Musashi somiglia a un fiume in piena. Il suo aspetto diabolico
traspare dai ritratti. Restò un emarginato, nonostante
gli ingaggi occasionali presso alcuni daimyo, i suoi più
sinceri ammiratori.
Hosokawa Tadatoshi, un signore del Kyushu, fu colui che riuscì
a mantenerlo più a lungo presso di sé, o il più
noto ad avvalersi dei suoi consigli. Ciò avveniva nella
maturità di Musashi. Tra i due esisteva un sodalizio, che
lo spadaccino non riuscì a instaurare con il figlio del
daimyo.«Percorrete, passo dopo passo, la strada lunga mille
ri. Studiate la strategia nel corso degli anni, e acquisite lo
spirito del guerriero. Oggi è il vostro trionfo sul vostro
spirito di ieri; domani, sarà il vostro trionfo sugli uomini
inferiori.» «Anche se riportate a vittoria, se il
risultato non si basa su quanto avete imparato, non avrà
niente a che fare con la Via autentica.»
Il «Libro del fuoco» si chiude con queste parole: «L'autentica Via della spada
consiste nell'abilità di sconfiggere il nemico nella lotta,
e nient'altro. Se attingete e aderite alla saggezza della mia
tattica strategica, non avrete mai bisogno di dubitare della vittoria».
Il duello con Sasaki Ganryu concluse un'era. A quel punto Musashi
non aveva più avversari, o almeno pensò così.
Certo, non si poteva parlare di un addestramento completo, e c'era
ancora molto da imparare. Ma lui era diventato un altro uomo.
L'impeto della prima giovinezza lasciava spazio a una riflessione
più matura. Musashi fondò la sua scuola, senza rinunciare
a duelli o competizioni d'ogni tipo.
Nel 1605, prima di questa fase relativamente più tranquilla,
ci fu lo scontro con Muso Gonnosuke. Anche questo samurai si impegnava
nel pellegrinaggio del guerriero. Sino all'incontro con Musashi,
era rimasto invitto. Forse il duello si svolse ad Akashi, nella
provincia di Harima. Una cronaca di ventiquattro anni dopo circa
si dilunga sui dettagli. Gonnosuke era di statura imponente. Portava
una spada lunga, e la sua veste recava questa iscrizione : «Il
miglior combattente di arti marziali nel Paese». Stava andando
nel Kyushu, ed era accompagnato da una vasta schiera di seguaci.
L'incontro non esordì sotto buoni auspici. Benché
rivali, due persone potevano ugualmente affrontarsi con uno spirito
amichevole. Non fu così.
«Sai, al mondo non c'è nessuno che possa eguagliarmi!»
Gonnosuke era arrogante, e la sua voce suonava aspra e roca.
«Forse un tempo ho incontrato tuo padre sul mio cammino.»
Gonnosuke non aggiunse altro.
«È possibile. Era maestro nell'arte del Jitte.»
«La tua tecnica, invece, in cosa consiste?»
Musashi esitò un attimo a manifestare il suo disprezzo.
Fu il ricordo del padre a turbarlo. Gli era stato menzionato apposta?
Si limitò a una secca replica.
«Se conosci la Via di mio padre, conosci anche la mia.»
«Mostramela allora, a beneficio dei miei allievi.»
Notando la perplessità del suo interlocutore, Gonnosuke
insistette.
«Cosa c'è, non sei pronto forse?»
«La mia arte non è in mostra. Attaccami pure come
desideri, secondo il tuo stile. Io ti bloccherò. Solo in
questo consiste la mia Via. Ti lascio libera scelta.»
A quel punto Gonnosuke sapeva cosa fare. Irritato da quelle risposte
brusche, impudenti, si preparò all'assalto. Estrasse una
lunga spada di legno da una borsa di broccato. Poi si avventò
su Musashi senza alcuna formalità. Accovacciato, lo spadaccino
parò i terribili fendenti dell'avversario. Saltava qua
e là, sembrando inafferrabile. Si muoveva con naturalezza,
senza sforzo.
Poi passò al contrattacco. Respinse Gonnosuke con fermezza,
costringendolo a indietreggiare. Quello fu disorientato da tanta
furia, e non ebbe la forza di reagire. In breve, si trovò
alla mercé di Musashi.
Circondato da una barriera di rocce, capì che ogni ritirata
era preclusa. A quel punto Musashi lo colpì lievemente,
tra le sopracciglia. Poteva ucciderlo, ma non lo fece.
Compassione? Tutt'altro. Musashi voleva umiliarlo: mantenendolo
in vita, avrebbe dato modo al suo rivale di rimpiangere amaramente
la sconfitta.
Così fu. Gonnosuke si ritirò in un chiostro dello
shintoismo sul monte Homan. Lì indugiò in lunghe
riflessioni. Era incapace di comprendere le ragioni del suo fallimento.
Neanche la meditazione Zen riuscì a rísollevarlo.
Dopo una trentina di giorni, trovandosi nel pieno del makyo, la
follia allucinatoria, il guerriero ricevette una visione da qualche
altra sfera di esistenza. O almeno così gli parve. Ma,
contrariamente ai suoi timori, non intravide il volto di Musashi.
Arrivava un kami a recargli una notizia piacevole, facendogli
balenare la possibilità di nuove armi.
Scorse un jo, un bastone corto che da quel momento sarebbe divenuto
il suo strumento. Prima ne aveva usato uno lungo in molti duelli.
Quello della visione risultava sempre un po' più lungo
del katana, l'arma di legno a punta aguzza.
Gonnosuke capì che nuove tecniche diventavano accessibili.
Poi la leggenda lo rimette sul cammino di Musashi, ma con date
e luoghi ignoti. L'agiografia si confonde con i pochi, scarsi
indizi di realtà. L'unica cronaca che ne riferisce lo indica,
sorprendentemente, come il trionfatore! Fu dunque quella l'unica
disfatta di Musashi? C'è chi è pronto a negarlo,
diffidando di fonti poco autorevoli o inverificabili.
Musashi avrebbe affrontato altri duelli, sempre con grande vigore.
Si parlò persino dell'episodio del «riso tagliato
in due». Egli avrebbe posto sul capo di un avversario un
granello di riso; poi, senza ferirlo, avrebbe infierito sul granello
con un colpo di spada ben assestato, dividendolo in due parti!
Questa storia è puntualmente riferita da coloro che considerano
Musashi un eroe nazionale.
Risulta più credibile chi gli attribuisce un ventaglio
come arma. Nelle arti marziali giapponesi ci sono tracce di simili
scontri, e un ventaglio di ferro può sconfiggere persino
la spada. In ogni caso, Musashi sapeva sfruttare ogni oggetto,
trasformandolo in un ordigno micidiale.
A quel livello di consapevolezza, ogni campo dello scibile si
rivelava analogo all'arte della spada. Musashi poté cimentarsi
nella calligrafia, e nella pittura, con risultati sorprendenti.
Si pensi al ritratto di Bodhidharma, il patriarca dello Zen, presentato
con poche linee di pennello: un'economia che fa pensare subito
all'estetica di questa scuola buddhista. Solo il viso è
visibile, mentre il corpo risulta vago e indistinto. O al suo
stesso autoritratto, relativo agli anni maturi, in cui egli si
raffigura nel deserto. Il «saggio della spada» (kinsei),
come è stato definito, regge due spade, la lunga e la corta.
I capelli sono radi, ma la forma del corpo è ben salda.
Il suo sguardo fissa nel vuoto o si rivolge a un rivale immaginario.
Il deserto funge da metafora del vuoto (ku).
«Il cosiddetto spirito del vuoto si mostra dove non c'è
nulla . Non è compreso dalla conoscenza umana. Naturalmente,
il vuoto è il nulla. Dalla conoscenza delle cose esistenti
si ricava la conoscenza dell'inesistente. Questo è il vuoto.»
Questo uomo anziano, che non trova più avversari, poiché
è giunto a dominare completamente sé stesso, si
muove in uno spazio appartato, dove non ci sono più oggetti
a turbarlo. La sua è una visione salvifica; pur servendosi
delle armi, egli ha raggiunto la pace.
«La gente del mondo sbaglia a osservare le cose, e pensa
che il vuoto sia ciò che non comprende. Questo non è
il vuoto autentico. È la confusione. «Anche nella Via della strategia
ci sono coloro che studiano da guerrieri e pensano che il vuoto
consista in tutti gli elementi della loro arte che gli risultano
incomprensibili. Questo non è il vuoto autentico.» Si dovrebbe attingere una più alta sfera di esistenza.
Ed è quella che permise a Musashi di librarsi oltre i confini
dell'etica. A quel punto, egli depose i panni del fantasma terrificante
o dell'avversario indomabile. Il suo aspetto demoniaco si sposò
con la tranquillità, senza però aderire al buddhismo. «Finché non realizzerete
la Via autentica, che aderiate al buddhismo o al senso comune,
continuerete a pensare che le cose siano già ben disposte
e in ordine.» Musashi espresse queste intuizioni con il suo pennello nel dodicesimo
giorno del quinto mese del secondo anno dell'era Shoho, cioè
nel 1645.
Così completò il suo testamento spirituale. «Per attingere la Via della
strategia in qualità di guerrieri dovete studiare a fondo
altre arti marziali (oltre alla scherma) e non deviare neanche
per un attimo dalla Via del guerriero. Con lo spirito ben disposto,
accumulate la pratica giorno per giorno e anno per anno. Raffinate
il duplice campo dello spirito e del cuore/mente (kokoro), e aguzzate
il duplice campo della percezione e della visione ».«Quando
il vostro spirito non risulterà oscurato da nulla, e le
nuvole della confusione saranno dissipate, (vi troverete davanti
al) vuoto autentico.»
Tutte le cose saranno percepite come sono, e si comprenderà
la perfetta identità tra il vuoto (ku) e la Via (do, tao).
Verrà attinta la virtù completa, sì, ma non
sarà più soggetta al dispotismo degli opposti ?
Musashi raggiunge l'illuminazione con la spada in pugno. Tuttavia,
a un certo punto può anche far sparire l'arma, insieme
al suo ghigno atroce. Il combattimento con le ombre è finalmente
sospeso. E mai esistito un altro tipo di lotta?
Lo si abbandona senza rimpianto, infatti, valutandone l'inconsistenza.
Musashi impalava gli avversari con una spada di legno. Non la
si riteneva offensiva, dunque, a torto. Anche Ikkyu, il maestro
buddhista, andava in giro con una spada di legno. Precisava che
con quella dava la vita, non la morte. Difficile credere che Musashi
ne condividesse lo spirito.
Ma poi, quando demoliva l'avversario con il suo impeto implacabile,
restava forse nella sua mente una flebile traccia di pensiero?
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